interpreti R. Pape, J. M. Kränzle, D. Soffel, A Larson, S. Rügamer
direttore Daniel Barenboim
regia Guy Cassiersteatro alla Scala
MILANO
MILANO – Più che i contenuti, ampiamente illustrati dal Dramaturg Erwin Jans nel programma di sala, il nuovo Ring che la Scala ha affidato al belga Guy Cassiers sorprende per la novità dell’idioma teatrale. Certo, la decadenza di una civiltà e l’affermazione di nuovi idoli – così com’è evocata da Wagner – coincide in maniera impressionante con analoghe trasformazioni epocali tutt’ora in corso, che Cassiers attribuisce a una globalizzazione che sottomette l’uomo al primato della tecnologia e riduce la realtà a virtualità. Però il “messaggio” passa attraverso una completa ridefinizione dello spazio scenico. E forse non ne potrebbe prescindere.
La parola (cantata), il gesto e la “scenografia” non esistono più così come li abbiamo conosciuti nella grande stagione del teatro borghese, fondato sul principio del racconto lineare e della verosimiglianza. Ora esplodono in una costellazione di micro-eventi simbolici e allusivi. Da intendersi come doppisensi o potenzialità interpretative, più che come risposte “statiche” al testo e alla partitura. Così Cassiers “decostruisce” i personaggi nelle componenti autonome del corpo, dell’immagine e della voce: gli dei sono essere ieratici che ragionano cantando, ma anche danzatori che esprimono le emozioni nascoste, rivelate dalla musica; mentre nel regno dei Nibelunghi quei corpi perdono autonomia, diventano massa corporea dominata da Alberich. I giganti proiettano ombre che alludono agli eventi presenti e futuri, come oscure premonizioni. Tutti, poi, possono essere ripresi, proiettati, manipolati su schermi giganti, alternandosi a cangianti “video-scenografie” materiche o tecnologiche (queste ultime nel regno “tecnocratico” di Alberich). Sono immagini puramente virtuali. Come quelle seducenti e “pubblicitarie” delle Figlie del Reno, pronte a sparire con un clic.
Il compositore che più di ogni altro ha innovato nella drammaturgia musicale, dichiarando il primato non della musica o della parola, ma dell’azione scenica nel suo complesso, risponde perfettamente a questo impianto. A cui non dobbiamo chiedere, però, ciò che già nelle premesse non può darci: cioè risposte univoche alla domande sulle “intenzioni” wagneriane. Anche perché – come tutto il Ring – anche il Rheingold è un capolavoro dell’ambiguità. Chi è davvero Wotan, quale verità si nasconde dietro la metafora dell’oro, non è possibile saperlo con precisione. Solo ipotizzarlo. Ecco così che anche la forte presenza della gestualità coreografica, per sua natura più vaga e allusiva di quella propriamente teatrale come nel teatro-danza di Pina Bausch, raggiunge lo scopo di interpretare quel prismatico flusso orchestrale. Senza inchiodarlo a definizioni univoche, come nell’ingenuotta tassonomia dei temi wagneriani (non prevista da Wagner).
Anche Barenboim “sente” il conflitto tra gli elementi, da sbalzare e ricomporre come essenza della scrittura (non solo) wagneriana. Ma alle accensioni sinfoniche, liberate nei momenti puramente orchestrali (al netto di qualche assenza di rifinitura), preferisce il laborioso ordito, per “servire” le inflessioni della parola cantata. René Pape, al debutto in un Wotan non ancora problematico, si staglia per volume e copertura di suono, e musicalità. Stephan Rügamer (Loge) per l’insidiante presenza del corpo-voce. La Fricka di Doris Soffel stride in acuto, mentre è autorevole l’Alberich di Johannes Martin Kränzle. Tra gli altri spicca la pertinenza vocale e stilistica dello acidulo Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke.
Andrea Estero