interpreti S. Skelton, Y. Naef, T. Hampson, M. Salminen direttore Daniele Gatti
regia Claus Guth
teatro Opernhaus
festival dell’Opera
ZURIGO
ZURIGO – Tutto nasce da un litigio familiare. I fratelli Amfortas e Klingsor sono seduti di fronte a una tavola apparecchiata con preziose porcellane e cristallerie: la discussione si infiamma, il padre Titurel prende le difese di Amfortas, e Klingsor, escluso dalla gestione del Graal – il “tesoro” di famiglia -, se ne va scaraventando per terra un bicchiere e sbattendo la porta. Per Claus Guth il teatro wagneriano racconta sempre e inesorabilmente la grande stagione della borghesia ottocentesca. Il cui equilibrio, come nei Buddenbrook, a un certo punto si rompe. Wagner come Thomas Mann nell’immaginario antefatto (recitato nel corso del Preludio), ma anche dopo: il Novecento è alle porte e ora dall’interno borghese si esce per scorgere la nuova realtà sociale e politica (una strada già battuta tra gli altri da Herheim a Bayreuth). La storia è in marcia con Parsifal, simboleggiata da una corsa in video, ricorrente come un Leitmotiv. L’eroe viene a conoscenza dell’epidemia che costringe Amfortas e i suoi accoliti in un sanatorio (ancora Mann? O un’allusione alla sconfitta tedesca della prima guerra mondiale?); supera le prove e le seduzioni nel regno di Klingsor, la casa del figlio ribelle nella Berlino delle feste e dei cabaret (le fanciulle-fiore sembrano dipinte da Otto Dix); ed è infine acclamanto dai borghesi come l’unica personalità in grado di “assumersi tutte le colpe altrui” e sanare le ferite del passato: il Grande Dittatore. Amfortas e Klingor si riconciliano, entrambi sconfitti.
Geniale, ma non inedita, riscrittura di un dramma la cui natura “sacra” è però recuperata da un’arzigogolata situazione che vorrebbe essere esoterica: Amfortas, così pare di capire, è il leader di una società paramassonica in cui s’intrecciano interessi e ritualità: gli affiliati bevono il suo sangue come segno di appartenenza. Spremuto dall’addome dell’erede costretto dal decrepito Titurel a stendersi sul lettino, il prezioso liquido viene raccolto in una caraffa e somministrato dai dottori in un bicchierino. La riuscita dello spettacolo è pregiudicata da queste goffaggini e da altre forzature, dovute forse alla natura “spuria” della drammaturgia. Parsifal non è Tristano, che Guth aveva messo in scena tra le mura di casa Wesendonck. Quello era un capolavoro. Allora come adesso, però, il regista si serve di cantanti e attori che garantiscono il perfetto funzionamento di un ingranaggio dove tutto, perfino il più piccolo movimento, è codificato in anticipo: Matti Salminen, Gurnemanz, è il rigido cappellano del sanatorio dalla voce ancora scolpita; Hampson è meno solido, ma sul suo Amfortas parlante e malato s’impernia lo spettacolo. Gli altri risultano più anonimi, anche se corretti: il Parsifal limpido di Stuart Skelton, il Klingsor di Eglis Silins, la Kundry gridata in acuto di Yvonne Naef.
Se la partitura visiva propone una forte impronta realista e un deciso “crescendo” di segni, la direzione d’orchestra descrive, al contrario, una dinamica decrescente e sbalza la natura luminescente della scrittura. Daniele Gatti dirige a memoria: in maniera eccellente. E ricerca sonorità eteree, immobili, “distaccate” nel primo atto. Laddove nel terzo – pur nella generale tendenza antiretorica – accentua la “tinta” stanca e dolente. I tempi piuttosto lenti predispongono dunque non all’enfasi, ma alla rarefazione, in un gioco di rifrazioni che ricorda la sintonia tra questo Wagner e i nuovi poeti del suono-colore. Ma allora Parsifal è metafora storica oppure opera simbolista?
Andrea Estero