interpreti P. McNamara, L. Kinca, A. Stundyte, C. Pohl, P. Balakin direttore Omer Meir Wellber regia Calixto Bieito teatro La Fenice
VENEZIA – In tutto il Veneto, e oltre, non esiste un’arpista in grado di suonare i passi del Tannhäuser. Alla Fenice avranno fatto il possibile per sostituire la prima parte, ammalatasi la sera prima della replica del 28 gennaio. Niente da fare. Così si va in scena affidando quell’idioma irrinunciabile alle note del pianoforte (verticale). Peccato. Perché l’orchestra guidata da Omer Meir Wellber è in grado di confezionare un bellissimo Wagner. Wellber si dice estraneo, anzi ostile, alla retorica wagneriana. Lo testimonia con una traccia orchestrale netta nei contorni, accesa negli andamenti, ricchissima di dettagli. Ma non priva di incanti e sensualità. Anzi, decisamente appassionata. Al punto che i due poli espressivi, che Wagner “dichiara” nell’ouverture, confluiscono uno nell’altro in un racconto teatralissimo. D’altra parte Tannhäuser non è un’opera di elaborate transizioni, ma di contrasti frontali, immediati. E di minimi passaggi. Che Wellber sente con sensibile reattività e alta temperatura emotiva, trascorrendo, sospinto, dall’accesa frenesia della musica di Venere, alla magia del Lied, alla purezza del corale.
La direzione impostata sulla pulsazione rapinosa funziona anche con lo spettacolo di Calixto Bieito. Il regista catalano rifiuta gli stereotipi che la tradizione ha attribuito a quest’opera, ingigantendoli: la lussuria del mondo di Venere; la purezza virginale di quello di Elisabeth. Nella sua scrittura visiva, al contrario, quelle presenze sono due volti dello stesso “eterno femminino” posto di fronte alla coscienza di Tannhäuser. Semmai la contrapposizione è tra la faticosa ricerca dell’eros e una società gretta, autoritaria, violenta, rappresentata dai cantori riuniti nella Wartburg e dalle loro regole castranti. Così il Venusberg è un antro oscuro, solitario, dove l’antica dea ora caduta (Ausrine Stundyte, non sempre a fuoco) trascorre le giornate tra arboree masturbazioni e pornografici preliminari col tenore (Paul McNamara, che sostituisce il titolare con una prova di notevole efficacia e tenuta). Non va meglio nella Wartburg: di un bianco accecante, ma ugualmente dannata. Qui i “maestri cantori” incarnano l’ipocrisia e la violenza sessuofobica del potere: i versi d’amore eccitano anche loro, ma poi puniscono il trasgressore con pedate e (rumorose) fustigazioni, e umiliano sessualmente colei che ha osato comprendere le sue inquietudini, che le ha anzi condivise con irrequieta sensualità (Liene Kinca, meravigliosa Elisabeth); mentre il coro dei pellegrini intona il suo canto penitenziale, mai sentito tanto opprimente (buona prova del coro, ma attenzione ad alcuni passaggi a cappella, paurosamente calanti). Nel terzo atto, Wolfram, deluso dai rifiuti di Elisabeth, la costringe a un rituale sadomaso e finisce quasi per strangolarla, poi si pente nella sua struggente meditazione alla stella della sera (davvero magnifico Christoph Pohl), ma il sacrificio non porta alla redenzione da Venere, bensì al suo trionfo: la ricerca si è compiuta e ora l’intera umanità tende le mani verso una nuova Donna salvifica.
Ai perplessi raccomandiamo di rileggere il libretto per certificare l’insofferenza di Elisabeth alle deprimenti liriche dei cantori; e di ascoltare la musica per trovare in Venere gli accenti sconvolgenti dell’“avvenire” musicale, oltre che i supremi abbandoni di Isotta. Indubbiamente è uno spettacolo “di” Bieito. Esplicito, spiazzante, disturbante. Condotto con credibilità scenica assoluta. Ma, a volerle trovare, non è neanche troppo lontano dalle pieghe wagneriane più profonde.
Andrea Estero