Wagner/Vick/Dove – Ring Saga

Wagner/Vick/Dove - Ring Saga

interpreti C. De Boever, I. Ludlow, J. Martin, L. Peintre 
direttore Léo Warynski
regia Antoine Gindt
teatro Valli
REGGIO EMILIA

 REGGIO EMILIA – Il Ring sul ring. Come quello su cui si scontrano Siegmund e Hunding: a Wotan, subito dopo, basta un calcio per scaraventarlo giù, fuori gioco. È una piattaforma di sei metri per sei quella che accoglie l’intera Tetralogia. Anche se questa volta la saga wagneriana è ridotta a una versione concentrata, 9 ore in un solo fine settimana, concepita da Graham Vick e Jonathan Dove per la  Birmingham Opera nel 1990 e ora riproposta al Valli di Reggio Emilia in una nuova produzione scenica (partita da Porto e itinerante tra molte città francofone). Se si esclude il taglio netto del Prologo del Crepuscolo (quello in cui si spezza il filo tessuto dalle Norne) la forbice agisce chirurgicamente, all’interno delle singole scene, eliminando o riducendo le digressioni e soprattutto i momenti in cui i personaggi riepilogano i fatti passati riannodandoli con il loro presente: tra furto dell’oro e rogo finale passano stavolta meno di 48 ore, si conta sulla memoria dello spettatore. Ne viene fuori un Ring parziale, in cui la dimensione “epicizzante” (il Wagner che riassume, ricorda e prefigura nelle lunghe parentesi narrative) lascia spazio a quella puramente teatrale e rappresentativa. Per questo stupisce che la regia di Antoine Gindt abbia rinunciato al dinamismo del teatro da camera in favore della rievocazione mitica, seppure in formato bonsai. Così la riduzione non riguarda solo l’impianto, ma anche la gestualità stenografica, ai limiti dell’astrattismo, che si concentra sui momenti culminanti, con intenzioni didattico-segnaletiche. E particolari intriganti: come quando Brunilde fa scivolare a Wotan una pistola, suggerendogli da amante bambina di far fuori la petulante Fricka. D’altra parte all’ingegnoso uso dello spazio, che diventa con le canne di bambù la capanna di Mime e si trasforma con un tavolino-bar nella reggia dei Gibicunghi, corrisponde una direzione di scena antirealistica, che procede per metafore e funzioni teatrali: Sigfrido sfila l’anello a Brunilde mimando un “transfer” a distanza, i due sono seduti distanti l’uno dall’altra, non si toccano, anche per “dire” che non si capiscono. Diciamo pure che questa essenziale e concentrata stenografia gestuale ha il limite di lasciare incolte troppe situazioni, di fatto contraddicendo la stessa logica “teatralizzante”.

Note dolenti arrivano dal Remix Ensemble: è vero, la riduzione orchestrale è per sua natura squilibrata a vantaggio dei fiati. Ma un sestetto d’archi così gracile è incompatibile con la svettante inclinazione tematica wagneriana. La concertazione di Léo Warynski (chiamato a subentrare a Peter Rundel, presente nelle altre tappe) non faceva che peggiorare la situazione: invece di una reinvenzione prosciugata e corrosiva dell’intreccio leitmotivico, ne forniva una sbiadita e spesso pasticciata. I cantanti non erano liederisti o fini dicitori (tranne Ivan Ludlow, Wotan), ma si sono buttati a capofitto nell’impresa: la Brunilde di Cécile De Boever, dopo tre opere in un giorno e mezzo, aveva ancora voglia e mezzi di arrampicarsi nei suoi Walhalla vocali, conquistando anche qualche vetta.
                                                                                                                Andrea Estero
 

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