MILANO – Woolf Works alla Scala ha un posto incisivo nel cartellone di balletti firmato da Frédéric Olivieri, direttore del balletto milanese. Per molte ragioni.
Un coreografo tra i quaranta-cinquantenni di punta, l’inglese Wayne MacGregor, residente al Royal Ballet londinese, ma di provenienza non classica; una musica originale del tedesco Max Richter di educazione internazionale e di stanza a Londra, eclettico e post-classico, indie-progressive, attivo tra colonne sonore e concept-album, già altre volte complice del coreografo; una star assoluta ed eccezionale, la tragédienne Alessandra Ferri, campionessa del balletto narrativo, oggi 55enne, tornata alle scene dopo un abbandono evidentemente impossibile.
Nato al Covent Garden nel 2015, questo balletto in tre atti diversi a formare un’unica serata è ispirato agli scritti di Virginia Woolf, che ha sedotto il coreografo per la sua attitudini a interrogarsi sullo scrivere, così come lui indaga nel coreografare.
Il primo è I now, I then, dal romanzo Mrs Dalloway, con personaggi tratteggiati alla maniera tipica del balletto inglese, notoriamente amante dei racconti e dei sentimenti.
Il secondo Becomings guarda a Orlando, con i suoi scarti di tempo e di genere, maschile e femminile.
Il terzo, Tuesday, è tratto da The Waves, le onde del mare in cui abbandonarsi dopo la lettera d’addio al marito buono e perduto. E qui si ode la voce della scrittrice e si vede-sente l’eco della spuma di una gran risacca bianca e nera proiettata.
Ferri, accanto a Federico Bonelli, partner perfetto, è presente nel primo e terzo tempo, con tutta la sua attitudine drammatica.
Woolf Works viaggia a due velocità, quella romanzata della prima parte, con Clarissa matura e Clarissa giovane-Caterina Bianchi che si incontrano nella memoria della protagonista, e anche della terza, che celebra il trionfo di Alessandra, in grado di volare con fluidità perfetta nei suoi veli leggeri tra le braccia di Bonelli in un duo splendido, di abbandono, fiducia, morbidezza. Becomings, il brano di mezzo, è invece il trionfo del MacGregor più autentico, postclassico, “il Forsythe britanico”, per i ragazzi e ragazze della Scala, meravigliosi in dinamiche esigentissime, spezzate, estremizzate, lanciate nello spazio. Un pezzo che è un dono per la compagnia, esaltata dal lavoro con un coreografo vivente e dedito alla sua valorizzazione, così come era già accaduto con il francese Angelin Preljocaj nella recente creazione Winterreise su Schubert, in uno stile contemporaneo di stampo, invece, post-cunninghamiano e sensuale insieme.
Peccato per l’eccesso di fumo che alla prima ha nascosto allo sguardo l’incipit di Becomings, con un tocco trasgressivo nei costumini con gorgiere, bloomers, mini tutu, senza distinguere uno specifico per uomo o donna.
Le tinte metalliche e i tulli appaiono sotto lame di luce disco-laser un po’ datate.
La musica è di servizio, evocativa per il primo atto, ostinatamente baroccheggiante per il secondo atto, atmosferica e naturalistica per il terzo, ben servita dal direttore Koen Kessels.
Elisa Guzzo Vaccarino
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