interpreti J. Maddalena, R. Braun, R. Brubaker, R.P. Fink, K-Kim direttore John Adams orchestra teatro Metropolitan regia Peter Sellars regia video Peter Sellars formato 16:9 sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp., Port. 2 dvd (BlueRay+dvd) Nonesuch 532291-2
Ventiquattro anni dopo la sua prima all’Opera di Houston, l’approdo nel 2011 di John Adams e della sua opera maggiore al Metropolitan fu un evento importante. Inserito, peraltro, in un’apertura molto maggiore rispetto al passato verso l’opera contemporanea americana. In più, costituì anche l’esordio nel massimo teatro lirico d’America d’uno dei massimi registi americani, Peter Sellars. Che di quell’opera era stato il committente, e che si assunse anche il delicato incarico di filmare la produzione per il circuito cinematografico, dove siede quella platea virtuale del Metropolitan che sempre più pare ritenuta la sua principale, cui il teatro destina tutte le nuove produzioni o le riprese più importanti, alla platea reale riservando la normale – quantunque di livello – routine quotidiana.
La particolarità del soggetto sta nella celebre visita di Nixon a Mao Tse-Toung, che, nel rompere formalmente la barriera tra Cina e Stati Uniti ampliò di colpo lo scenario politico internazionale facendo parlare per la prima volta di globalizzazione, ma contemporaneamente, con l’enorme rilevanza mediatica dell’avvenimento, dimostrò anche quanto i satelliti di telecomunicazione giocassero ormai ruolo fondamentale nella circolazione dei fatti, quindi delle idee, quindi degli scenari politici di un mondo reso di colpo più piccolo. Un soggetto, dunque, che poteva far ritenere doppiamente caduca quest’opera. Caduca perché troppo legata al qui e ora: dovrebbe teoricamente essere un lavoro collegabile alla cosiddetta Zeitoper mitteleuropea anni venti, quella cioè ispirata a un particolare avvenimento letterario, sociale, politico, tecnico, comunque generatore di moda comportamentale o di pensiero. E ancor più caduca perché l’avvenimento sembrava cosa interamente circoscrivibile – e dunque pienamente comprensibile – solo all’America. Viceversa, nel corso d’un quarto di secolo Nixon in China ebbe giro parecchio vasto. Il festival di Edimburgo l’accolse lo stesso anno (e molti commentarono con la solita malignità essere l’ennesima dimostrazione di come l’Inghilterra sia in realtà la cinquantunesima stella della bandiera americana) con lo stesso allestimento di Sellars, visto subito dopo anche ad Amsterdam, Francoforte (che l’appena trascorsa gestione di Gielen aveva reso scena teatrale tra le più vivaci e propositive d’Europa), Londra (ma all’English National Opera, palcoscenico senza confronto più innovativo e interessante rispetto all’allora ingessatissimo Covent Garden). Nuovi allestimenti furono poi montati sia in diversi teatri americani sia a Friburgo, Parigi, Vienna: quest’ultima messinscena – di Peter Pawlik, e sfortunatamente non certo la migliore – giunse persino in Italia, al Filarmonico di Verona nel 2008, suscitando un modico interesse ma comunque un interesse, cioè meglio del nulla da noi sempre riservato alla conoscenza del teatro musicale americano, che sempre più va identificandosi come l’Opera Moderna tout court, o almeno quella non destinata alla solita nicchia dei sopravvissuti di Darmstadt bensì a un pubblico normale. Ma questo sarebbe discorso troppo lungo.
Tornando all’opera: sì, è una gran bell’opera. L’antico minimalismo cui s’informava la musica del primo Adams, nel corso degli anni Ottanta (nei quali esce la bellissima cantata Harmonium, su versi di John Donne ed Emily Dickinson) era andato mutandosi in un linguaggio più articolato. Echi postromantici prendono a convivere con una densità polifonica nella quale un ventaglio cromatico particolarissimo trae origine da un trattamento armonico volto a complesse combinazioni bitonali unite a un impulso ritmico anch’esso binario, basato su repentine pulsioni incisive che sferzano una grigia scansione sottostante, la monotona regolarità della quale crea un clima rarefatto, sospeso, nel quale la sensazione di “qualcosa” d’incombente genera una tensione drammatica singolarissima. Tensione, di fatto, che circola per tutta l’opera. Dall’arrivo del jet americano all’aeroporto di Pechino tra il risuonare di canti rivoluzionari alla scena magistrale del primo colloquio Nixon-Mao, con la voce da tenore leggero di questo che svaria in alto – inseguendo pensieri letterari quando non proprio filosofici – contrapposta alla terragna baritonalità di quello. Altro episodio cardine nel costruire una drammaturgia assai peculiare nel suo marcato surrealismo, è la scena centrale del second’atto. La coppia presidenziale assiste dapprima a un balletto (e il richiamo al grand-opéra è evidente, ma soprattutto è riuscito nel suo vetriolico intento parodistico della cultura di propaganda) e poi ai deliri della signora Mao, che lancia i propri strali antiborghesi in un’aria in puro stile Regina della Notte con tanto di tre Dame al seguito: dove viene riassunta con strepitosa efficacia teatrale la politica culturale da lei imposta alla Cina, quella delle celebri Otto Commedie, modello imprescindibile dell’impronta proletario-rivoluzionaria cui dovevano uniformarsi letteratura e teatro. La generale tensione, mantenuta costante nei primi due atti nonostante la diversità delle situazioni e dei personaggi, pare scaricarsi per intero nell’ultimo: tutto costruito su riflessioni indotte dallo storico incontro – che ormai volge alla fine – in ciascuno dei suoi protagonisti, ultimo dei quali è, con impeccabile logica drammaturgica, Chu En-lai. L’eminenza grigia di tutta l’operazione s’interroga con lucida consapevolezza sulla legittimità delle proprie azioni: e chiude l’opera con lo scansare tanto una facile malinconia della vecchiaia del potente, quanto una ben difficile catarsi socio-filosofica o anche solo un happy end moralistico. La librettista Alice Goodman – dietro la quale c’è sempre Peter Sellars – non arriva a mettere in bocca a questo Chu la celebre frase pronunciata dall’autentico statista cinese a proposito di Stati Uniti e Russia (“dormono nello stesso letto, ma non fanno gli stessi sogni”): però lo scettico realismo che questo stupendo brano getta a ritroso su tutta l’opera mi pare sia proprio di tale natura.
Diretta dall’autore, messa in scena – e filmata – dallo stesso Sellars autore del soggetto e regista della prima, è abbastanza logico che l’esecuzione del Met presentata in questo dvd sia paradigmatica. James Maddalena, primo Nixon a Houston vebticinque anni prima, pare non abbia minimamente risentito del trascorrere del tempo: attore eccelso, e cantante di strepitosa comunicativa. Janis Kelly non è meno formidabile, dominando senza problemi le notevoli difficoltà poste dalla prima scena del second’atto, quella della visita di Pat Nixon alla Comune e alle tombe dei Ming, componendo un personaggio complesso e molto sfaccettato, dove l’attrice è messa alla frusta non meno della cantante, senza che mai l’una prevalga sull’altra. Robert Brubaker è magnifico nel creare con Mao un ambiguo mix di stanchezza fisica, dignità un filo confusa, enigmatici abbandoni melodici dove la voce tenorile assume riflessi secchi e veementi per poi ripiombare in un registro medio a fior di labbro: e la gestualità è particolarmente efficace nello scansare ogni pericolosa traccia di caricatura. Kathleen Kim, la nuova titolare al Met delle parti di coloratura spinta, risolve con gelida impeccabilità le siderali proiezioni al sovracuto di Jiang Qing. Kissinger, che Sellars e Adams plasmano quale ruolo sostanzialmente buffo (scostandosi così dalla realtà storica, ma proprio per questo dandone un giudizio particolarmente impietoso che, ricordando la celeberrima intervista, suppongo sarà molto piaciuto a Oriana Fallaci), trova in Richard Paul Fink un interprete di consumata ricchezza teatrale. Chou En-lai, infine, è Russell Braun: straordinario nell’imprimere a questa figura vagamente misteriosa una ricchezza d’accenti tutta in sottrazione, unita a filo doppio con una gestualità di tanto più sfumata in quanto è presente in scena quasi di continuo; e il modo con cui la telecamera di Sellars sa inquadrarlo quando parla ma soprattutto quando non lo fa, costituirebbe un libro di testo la lettura del quale sarebbe da rendere obbligatoria per le tante spensierate signore in forza alla Rai, che tanto spesso affossano spettacoli troppo superiori alle loro inesistenti capacità di “leggere” un testo teatrale.
Elvio Giudici