nterpreti C. Gerhaher, G.-B. Barkmin, W. Ablinger-Sperrhacke, L. Waldt, B. Jovanovich, M. Peter direttore Fabio Luisi orchestra Opera di Zurigo regia Andreas Homoki regia video Michael Beyer formato 16:9 sottotitoli Ing., Fr., Ted. dvd Accentus 20363 prezzo 29,90
Sempre tanto difficile, per qualsivoglia opera d’arte, scrollarsi di dosso l’etichetta che la tradizione le ha appiccicato. Talora con ottimi motivi, beninteso. Ma il tempo passa (a teatro, per giunta, passa anche più in fretta), e le etichette possono zavorrare troppo il naturale evolversi dell’ottica da cui guardare un classico che, se classico davvero è, dovrebbe riflettere i diversi quotidiani delle successive epoche in cui esso ha ancora tanto da dire. L’espressionismo ha marcato a fuoco Wozzeck, che difatti è stato visto sotto tale angolatura – sia pure con diverse sfumature – nella stragrande maggioranza dei casi: e pare continui ad esserlo, nonostante recenti letture innovative (da Patrice Chéreau a Richard Jones, da Sebastian Baumgartner a Christian Marthaler, fino a Dmitri Tcherniakov che a mio avviso le supera tutte, supportato per giunta dalla portentosa direzione di Currentzis) abbiano ampiamente mostrato quanto l’opera guadagni, oggi, da impostazioni che nel loro realismo persino banale sottolineano impietosamente – in ciò tanto aiutati dagli imperanti media – quanto solo di facciata siano stati i mutamenti che dal 1837 di Büchner ha avuto la classe sociale più povera per ciò che concerne sopraffazione, miseria, brutalità, opportunismo, fatica quotidiana del vivere e relativa alienazione.
Homoki (che a Zurigo ha anche l’incarico di sovrintendente) in questo spettacolo dell’anno scorso ribadisce in pieno il vecchio dato espressionista. La scena è astratta, riconducibile a un teatro di marionette ma interamente dipinto di giallo con screziature nerastre, in cui i personaggi appaiono sempre a mezzobusto su di uno sfondo uniformemente scuro: tutti con la faccia dipinta di bianco, che con la luce giallastra assume tinte inquietanti. Unico colore vivido, in questo uniforme giallume, i rossi della chioma di Marie, del pennacchio del Tamburmaggiore (figura che pare ricalcata sul grottesco Joker di Batman) e delle labbra di tutti. Il bambino è per tutta l’opera un pupazzo, salvo nella scena finale quando è di carne ed ossa, ma allora è lui a tenere in mano un pupazzo. I movimenti, dato l’assunto generale, sono ovviamente a scatti, antinaturalistici. I passaggi da una scena all’altra avvengono con pannelli fatti scorrere orizzontalmente oppure fatti espandere e chiudere come un obiettivo fotografico. Le scene di folla sono una sorta di delirio onirico di Wozzeck, principiato nella scena del Dottore, che lui moltiplica in una folla di Dottori ghignanti e dalle movenze disarticolate tipiche dei burattini. L’assassinio di Marie rientra nella stessa ottica grottescamente espressionista: sempre visti di mezzobusto, Wozzeck col coltello gira dietro a Marie abbassandosi e scomparendo con lei, per poi riapparire con la testa mozza di lei tenuta in mano e fissandola mentre la capigliatura si scioglie davanti a noi ma dietro la testa ci appare di fronte, gli occhi sbarrati (peccato solo il battito di ciglia nel primo piano).
Di forte presa emotiva, senza dubbio. Pure, oggi come oggi, a parer mio siamo ormai troppo assuefatti a tagli espressionisti di tal genere: la vicenda assume un non so che di astratto, di tesi impeccabilmente ma anche freddamente svolta. È l’orrore quotidiano, rivestito di apparente normalità, a scuotere molto di più: come per l’appunto il geniale spettacolo di Tcherniakov ha saputo mostrare.
Luisi dirige benissimo come sempre suole, ma con un certo qual distacco anch’esso alquanto straniante; il cast è uniformemente buono, ma senza nessuna punta da ricordare in modo particolare: Christian Gerhaher, debuttante nel ruolo, è preciso, senza sbavature ma anche senza spiccata personalità; Gun-Brit Barkmin è talmente grottesca che difficilmente fa provare empatia per la sua Marie; il Tamburmaggiore di Brandon Jovanovich smorza con la sua linea malferma l’ostentata virilità da cartoon esibita in scena; un classico, ormai, il repellente Capitano di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke.
Elvio Giudici