interpreti B. Uria-Monzon, R. Alagna, M. Poplavskaya, E. Schrott direttore Marc Piollet orchestra teatro Liceu di Barcellona regia Calixto Bieito regia video Pietro d’Agostino formato 16:9 sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp., Cat., Cor., Cin.
Spagna non ostentatamente franchista, in cui però l’elemento militare introduce una nota dominante di rozza brutalità che ancor più risalta con l’eliminazione, nel primo atto, d’ogni figura riferibile alla popolazione. A questo proposito, molto tagliati sono i colloqui (i pochissimi rimasti mescolano parlato e recitativo): cosa di per sé discutibile, ma forza è riconoscere che – così com’è impostata l’intera narrazione – non solo non aprono “buchi”, ma anzi approfondiscono diversi tratti psicologici. Se totalmente espunta è ogni traccia di folclore, siamo comunque in Spagna: una Spagna che il regista ama, e cui proprio per questo indirizza a certi suoi tratti negativi critiche feroci. Al centro della scena s’alza un pennone su cui sventola la bandiera spagnola, di fianco a una cabina telefonica che è l’unico altro oggetto scenico: lì Carmen probabilmente “met à la porte son amoureux” mentre le sue compagne sono sdraiate al proscenio e i militari infoiati premono sui vetri, dai quali lei esce cantando l’Habanera. Mai visto un second’atto così pietroso di sentimenti, così percorso da folate di vitalità che nell’essere ricondotta alla sua elementare ferinità non è cosa meno umana. Anzi. Su un’arida landa di polvere e pietra giunge la Mercedes scassata dei contrabbandieri, che porta Carmen, le sue due compagne, Remendado e Dancaïre ma anche Zuniga, che evidentemente ne è complice a prezzo di favori sessuali pagati dietro una portiera da Frasquita: mentre Carmen canta rabbiosamente la canzone boema cui gli altri fanno piccolo ma sufficiente coro. La corruzione di Zuniga, Bieito vuole tingerla di ancor più osceno cinismo facendogli ravvoltolare addosso la bandiera, portata poi come uno scialle e sventolata all’arrivo di Escamillo, che anche lui si serve del contrabbando – e probabilmente di altro, all’occasione – elargendo fior di bigliettoni mentre canta la sua canzone. Formidabile pezzo di teatro da camera la scena Carmen-José: desiderio sessuale, frustrazione, rabbia, protervia, fatalità intrisa di disperazione foriera di tragedia, tutto s’alterna calibrandosi sulla musica che, nel perdere ogni minima traccia di gaglioffo ammicco sentimentale (questo “andar per la montagna” significa morte probabile, comunque solitudine ed emarginazione certa: un po’ diverso dalla narcisata compagnona), rivela la sua autentica natura tragica.
La Spagna, volenti o nolenti, evoca per riflesso condizionato la corrida. Ma se Bieito nega ogni aura eroica ad Escamillo (per inciso, lo spettacolo seguì a ruota il referendum popolare che fece della Catalogna una delle regioni dove la corrida è abrogata, tra polemiche che com’è facile immaginare avevano lasciato strascichi furibondi), riesce a mostrare con una sola, portentosa immagine la tauromachia quale ideale autentico che, al pari di tanti ideali, è passibile di mercificazione e dunque di diventare fasullo. Il sublime preludio terzo si svolge a sipario aperto. Al nulla più completo della scena su cui si spande un ghiacciato chiarore lunare, si contrappone sul fondo, rialzata così da incombere minacciosa e inquietante, la nera, gigantesca silhouette del toro pubblicitario del brandy Osborne che, coi suoi celebri – e regolarmente celebrati coi consueti sorrisini equivoci – grossi attributi in forte evidenza, per tutti gli anni del franchismo (solo oggi un po’ meno) ha dominato le strade spagnole da ogni altura che appena appena fosse d’una qualche entità, con indifferenza nei confronti di qualunque panorama. La corrida è maschia. E i maschi che hanno gli attributi bevono alcool. Però la corrida nascerebbe da ideali ben diversi e ben altrimenti celebrati. Sulle prime note, ecco apparire un uomo che si porta al centro della scena, si toglie tutti i vestiti, e completamente nudo nella luce della luna che scava ombre sinuose sul suo corpo atletico, mima alcune delle posizioni iniziali del tercio de muleta, la fase finale della corrida. Non c’è alcun riferimento preciso, ma questa atmosfera poeticamente sospesa, tragicamente viva, intrisa di bellezza virile, di minaccia, di orgogliosa vulnerabilità, parla inequivocabilmente di García Lorca: e questa sì, che è la Spagna più autentica, eterna e meravigliosa. La Spagna, ci suggerisce Bieito piazzando questa scena dopo le precedenti in cui la bandiera spagnola è stata tanto biecamente vilipesa, che una dittatura ancora recente ha tentato di tacitare: ma che è sopravvissuta. E subito dopo, la realtà della lotta per la sopravvivenza: il contrabbando quale mestiere duro e pericoloso, dove si guadagna ma anche si muore ammazzati nel giro d’un soffio. Lo scontro tra José ed Escamillo assume molti altri risvolti oltre alla rivalità maschile: scontro all’insegna d’un realismo violento ma anche, in un certo senso, epico nel continuo saltare sopra i cofani delle Mercedes, cadere a terra, girare attorno alle macchine, risalire sopra i tettucci.
E funziona. Quella che si suole definire esplosione di vita della Carmen, e che la sua complessa articolazione ritmica traduce il più delle volte in sfilate paciose di gente in vestiti sgargianti, qui è invece movimento continuo, spezzato, duro, tra la polvere secca che ti va nei polmoni assieme al catrame del fumo e all’alcool da quattro soldi: recitazione dei singoli e del coro posta sull’identico, strepitoso piano. Giacché si può contestare Bieito fin che si vuole, talora anche con ragione visto come certi suoi moduli linguistici e certe sue evidenti ossessioni (la vita militare, ad esempio, deve sicuramente aver significato per lui qualcosa di molto difficile) rischino spesso il prevedibile cliché. Ma che sia un regista, un regista vero, non ci piove: uno, cioè, che ti lavora sul gesto e sul suo estrinsecarsi in uno spazio scenico sempre ben impiegato e quindi definito. Senza contare quanto il confine tra linguaggio personale e cliché sia tra i più labili a definirsi: e quanto purtroppo sempre uguali restino violenza sesso sopraffazione miseria ingiustizia sociale, perché sempre presenti e dunque sempre motori della vita quotidiana.
Strepitoso anche l’ultimo atto. Nessuna costruzione, nessuna sfilata, nessun tocco di colore: solo la gente. Qui la musica esige che il coro sia numericamente nutrito, e difatti lo è: gente che assiste alla preparazione della corrida che però non vediamo perché a contare è la reazione – eccitazione, festa, vitalità – da essa provocata. E nel vuoto assoluto, lo scontro tra Carmen e José avviene in un’atmosfera quasi di stanchezza, alternata a soprassalti di cocciuta tetraggine da parte di lui e di orgoglio ma anche di morbida femminilità da parte di lei. Tocco magnifico, a mio avviso, questa Carmen che non si dimentica affatto d’avere amato quel contorto ammasso di contraddizioni, indecisioni, paure ma anche virile sensualità: amore lontano, però parte pur sempre d’una vita intensamente vissuta, ogni porzione della quale lei non sa né vuole rimuovere. E quando gli ridà l’anello, nessun urlo belluino come d’antica tradizione, ma neppure sussurro sprezzante gettandolo via. Invece glielo rimette – piano, con lentezza quasi assaporata – nella mano che poi quasi accarezza: ultimo mormorio intriso dell’eco di remoti gemiti sensuali, come a implorare che il ricordo conservi il suo conturbante profumo anziché svanire nell’acido del rancore.
A regia e recitazione di livello eccelso, corrisponde però direzione mediocre (pesante, spessa, arida, senza colori) e canto che deve sopportare l’handicap d’una Micaela tutta suoni striduli e acidi lungo una linea puntuta che fiati cortissimi spezzettano di continuo, per giunta con una dizione francese da operetta; d’uno Schrott attore dal carisma a dir poco formidabile ma che in Escamillo non ha mai trovato personaggio congeniale e questo lo è ancora meno di altre volte, anche a prescindere dalle libertà invero eccedenti che si prende in materia di scrittura e anche di prosodia francese; di ruoli di fianco appena appena passabili; e d’un coro che fa ipotizzare fosse in vacanza o in aspettativa il suo bravissimo direttore José Luis Basso, tant’è impreciso e qua e là persino vociante.
Per fortuna, i due protagonisti reggono la serata. Alagna è nella fase in cui ogni recita è una scommessa, tanto alterne e imprevedibili si son fatte le sue prestazioni, ma stavolta la forma lo sorregge: non tanto da permettergli piani e men che mai pianissimi – qualora peraltro intendesse farli – ma quanto meno un canto fermo, omogeneo, chiaroscurato da accenti intensi e partecipi enfatizzati dalla proverbiale nitidezza di dizione, di conserva a presenza scenica sempre ragguardevole e recitazione da fuoriclasse. Béatrice Uria-Monzon è stata una grande Carmen e in larga misura lo è ancora. Il timbro s’è alquanto prosciugato e indurito, ma immutata – semmai accresciuta – l’arte della sfumatura, del chiaroscuro, del colore, dell’infondere al “dire” un’infinità di sottotesti: tutti calibrati su di una gestualità che se ovviamente non sa nemmeno cosa sia la beceraggine della sguaiata vampirona dei tempi antichi, scansa altresì la buona creanza della calligrafista per plasmare uno dei ritratti più affascinanti, complessi, interessanti e degni di ricordo che la galleria di Carmen abbia meritato.
elvio giudici