Ciaikovskij – Evgenij Onegin

interpreti S. Keenlyside, K. Stoyanova, P. Breslik, P. Rose
direttore Robin Ticciati
orchestra Covent Garden
regia Kasper Holten
regia video Jonathan Haswell
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Giap., Cor.
2dvd Opus Arte 1120D
prezzo 25,80

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Kasper Holten, direttore artistico dell’Opera Danese ad appena 27 anni, e successore di Elaine Padmore alla guida del Covent Garden a partire dal 2011 (suscita parecchia invidia, la fiducia che all’estero accordano a gente sveglia e giovane), sta mostrando di saper svolgere in modo più che egregio il compito affidatogli: non ultima ragione essendo che delle ragioni teatrali del teatro musicale ne sa parecchio, essendo lui stesso anche uno dei maggiori registi europei, documentato anche in dvd da due esiti assoluti come il Ring di Copenhagen e il Tannhäuser. Fu criticata neppure troppo larvatamente, in Inghilterra, la sua decisione di produrre una regia in prima persona già al secondo anno del proprio mandato: le ragioni di tale riserve francamente mi sfuggono già nel principio, e figuriamoci nel merito, considerando il livello cui a mio avviso si attesta questo suo Onegin.
Potrebbe sembrare un (banale) flash-back principiato nel silenzio iniziale durante il quale vediamo una Tatiana adulta ed elegantissima leggere convulsamente una lettera: s’avvia invece un percorso esistenziale scandito dalla memoria, in cui Tatiana e Evgenij ripensano ai se stessi di diversi anni prima, chiedendosi cosa avrebbe potuto essere “se”, cosa sarebbero diventati “se”, e insomma come e perché quella felicità – che Tatiana ricorda quanto fosse “così, vicina, così vicina” – sia invece ingrigita in melanconica realtà scandita da una stanca abitudine.
Le diverse tappe della memoria vedono protagonisti due ballerini, che nell’impersonare Tatiana ed Evgenij giovani si contrappongono alle rispettive figure adulte, stabilendo quindi con loro un muto dialogo che alla fortissima valenza teatrale unisce il vantaggio di scansare ogni disagio concernente l’età non più verdissima della coppia Stoyanova-Keenlyside: anzi, proprio questi loro tratti maturi aggiungono un tocco di lancinante melanconia che con la musica stabilisce un’immediata affinità. Gestualità e mimica vengono dunque sdoppiate in un passato rivissuto in presa diretta nel presente: sicché non solo tutta la vicenda, ma anche i luoghi dove essa s’è svolta (che per essere appunto un luogo della memoria è una scena unica), assumono la “tinta” sentimentale dei due protagonisti. Entrambi costretti entro un angusto ambiente provinciale, ne sono usciti, lui viaggiando e lei sposando un nobile militare con entrature a corte: la festa in casa Larina è dunque una sorta di incubo mai dimenticato, in cui tutti sono vestiti uguali e in nero, tutti si muovono a scatti e a gruppi compatti, Tatiana che dialoga in spirito col proprio doppio giovanile scorgendo non solo quanto abbia sofferto, ma soprattutto quanto non abbia saputo opporsi con efficacia alle ragioni di tali sofferenze. In tal modo Evgenij, figura di solito evanescente e antipatica, assume tratti marcatamente cechoviani: tipico intellettuale dotato d’intelletto ma non di carattere, uno di quei deboli che i problemi non li affrontano né li subiscono (anche perché abbienti) bensì li evitano, sempre fuggendo e sempre indossando la comoda maschera dell’outsider.
La frequente compresenza dei personaggi deputati all’azione e di quelli che la subiscono o di cui si parla (mezzo supremamente efficace, a teatro, ove lo si sappia usare con criterio) assume valenza strepitosa nel finale, capace come mai prima di riassumere perfettamente non solo la situazione ma, ben di più, le sue implicazioni emotive. Dal duello, il cadavere di Lenskij è immobile al proscenio quale atroce memento (Bresnik, oltre a cantare la sublime aria come al presente non riesce a nessuno, si dimostra non meno eccezionale stakanovista della scena), e adesso sta davanti agli altri tre personaggi. Gremin compare, muto e dolente, ad assistere all’ultimo colloquio di Evgenij con Tatiana: questa comprende le ragioni del cuore, ma è stavolta lei, come un tempo Evgenij, a non saper reagire alle costrizioni sociali che la bloccano con un uomo molto stimato ma poco o punto amato, e col quale il matrimonio è assai dubbio sarà felice. Anna Karenina non ce l’ha fatta, insomma, perché Vronski è rimasto un Evgenij: ma ci ha quantomeno provato, mentre Tatiana non saprà mai se il suo Evgenij è davvero cambiato o fa solo finta.
Simon Keenlyside sigla uno dei suoi massimi capolavori, coniugando un fraseggio sfumatissimo a una gestualità quanto mai british nel suo lavorare tutta in sottrazione, facendo di Onegin non il solito dandy snob ma un irrequieto intellettuale intriso d’una sensualità che cerca di dominare scoprendone solo tardi quanto sarebbe stato dolce abbandonarvisi: e proprio in questa direzione (assai diversa da quella di Puskin), a mio avviso s’è mosso Ciaikovskij. Krassimira Stoyanova canta bene come sempre suole, ma stavolta con una partecipazione espressiva di cui è invece solitamente parca: il carisma continua ad essere relativo, ma il taglio interpretativo dello spettacolo l’aiuta moltissimo. Pavol Breslik s’iscrive tra i Lenski migliori di sempre, recitando per giunta in modo formidabile. Non male Gremin, e perfetti tutti i così importanti ruoli di fianco.
Elvio Giudici

 

 

 


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306 Novembre 2024
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