interpreti P. Petibon, P. Jaroussky, A. Prohaska, K. Bradic, A. Gregory, K. Baczyk direttore Andrea Marcon orchestra Freiburger Barockorchester regia Katie Mitchell regia video Corentin Leconte formato 16:9 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted. dvd Erato 0190295974367
Regista televisiva di notevole talento (la sua versione cinematografica del Giro di vite britteniano è un capolavoro), la spinta con cui la Mitchell sta affermandosi sempre più nel panorama internazionale s’è molto giovata delle ben quattro chiamate di Bernard Foccroulle al festival di Aix. Questa Alcina è senz’altro al livello cui s’attestava il magnifico Written on the skin di George Benjamin.
Simile l’impianto scenico: edificio su due livelli, ciascuno spartito in più ambienti. Quello al centro in basso è occupato quasi per intero da un grande letto, sul quale si consuma l’eros sadomaso di Morgana, che ad altro non bada che all’orgasmo, e quello di Alcina che invece – quantunque anche per lei il maschio sia un oggetto – aspira al grande amore. Su quel letto, entrambe sono bellissime. Quando però escono dalla stanza, l’effetto di droga-lifting istantanea cessa e tornano a essere quello che davvero sono: due vecchie, sciancate, orrende megere (le molteplici trasformazioni delle due cantatrici in due attrici – di bravura strepitosa – e viceversa, sono altrettanti pezzi di eccelsa tecnica teatrale) dedite alla tassidermia grazie a una macchina infernale (strizzata d’occhio al dottor Moreau di H.G. Wells) che trasforma gli amanti ormai “usati” e resi inerti dall’iniezione d’un liquido verdastro, in altrettanti animali per la loro vasta collezione sotto vetro. Macchina che può ovviamente funzionare anche al contrario (Bradamante e Melisso bloccano difatti il suo meccanismo e l’invertono), ed è governata da uno stuolo d’inservienti reso ciascuno un personaggio da un lavoro di gran classe sulla gestualità. La quale però, ovviamente, attinge il proprio apice coi quattro personaggi principali, sbalzati ciascuno con un senso del teatro formidabile: capace di superare l’insidia di una tal quale ripetitività pruriginosa. Le evoluzioni erotiche delle due sorellacce, ad esempio (che fanno sembrare quelle di Cinquanta sfumature di grigio roba da educande di provincia), e i loro rapporti coi maschi o anche con se stesse – Alcina indulge spesso, nei suoi momenti riflessivi, all’autoerotismo – riescono sempre a risolversi in riusciti spaccati di psicologia femminile. Con momenti memorabili: l’addio di Alcina a Ruggiero, per dirne solo uno dei moltissimi: lei incinta che si accarezza il ventre, e lui incapace di reazione benché la ragione dovrebbe essergli tornata, sicché lo stato di bamboccione non è effetto “magico” bensì triste realtà esistenziale.
Pari alla parte scenica è quella strumentale. Fattasi un po’ più intermittente la Santa Trimurti Barocca dei Christie-Jacobs-Minkowski, si sta facendo largo una nuova generazione tra la quale posto di rilievo assume sempre di più Marcon: gusto sfrenato dei contrasti, colori a profusione, ritmi incalzanti, incisività strepitosa di racconto. Impari a entrambe, viceversa, il canto: che è troppo inferiore al livello invece eccelso della recitazione.
La Petibon, che i francesi hanno eletto a sorta di monumento nazionale (grazie anche al triste interrompersi della carriera di Natalie Dessay, un confronto con la quale potrebbe porsi solo a livello di statura fisica, il canto di Natalie restando non su pianeta bensì galassia diversa) è quella che sempre è stata: vocina espressa da linea frammentaria che polverizza ogni scansione ritmica in segmenti impazziti, senza l’ombra d’un registro grave, coloratura miagolante, acuti striduli, rapporto erratico con l’articolazione italiana. Attrice da Oscar, insomma, ma cantatrice da oratorio provinciale. Niente meglio la Morgana di Anna Prohaska: “Ama sospira” è una pena, “Tornami a vagheggiar” un autentico strazio dell’anima. Passabile (ma impiegando dose eccedente di generosità) la Bradamante di Katarina Bradic, e tollerabili l’Oronte di Anthony Gregory e il Melisso di Krzysztof Baczyk. Meglio di tutti, non per la prima volta, il controtenore Philippe Jaroussky: voce sempre bellissima, linea impeccabile quantunque un po’ a disagio nella bassa tessitura di Ruggiero, coloratura virtuosistica, accento non troppo vario che tuttavia calza con quel bamboccione che in fin dei conti Händel ha voluto.
Elvio Giudici