interpreti M. Papatanasiu, P. Cernoch, W. White, A. Persson, R. Morloc direttore Adam Fischer orchestra La Monnaie Symphony regia Stefan Herheim regia video Willy Vanduren formato 16:9 sottotitoli Ing., Fr., Ted., Ol.,Cor. 2dvd EuroArts 2059928
Uffa. Si comincia con l’essere stanchi dell’andare a teatro solo per risolvere enigmi: non c’è neppure la mano d’una Turandot, a invogliarci. È ormai “la scoperta del lella”, come dicono a Milano, che dietro alle fiabe ci siano sottotesti e lati oscuri: ma a teatro, perché davvero funzionino, occorre che tali sottotesti siano immediatamente leggibili. E difatti, in quest’opera, Robert Carsen aveva esplorato il tema del doppio con chiarezza abbagliante. David Pountney raccontava la maturazione psicosessuale che dall’adolescenza porta alla maturità, specchiando la storia nell’Interpretazione dei sogni di Freud ma rendendola avvincente come un thriller. Martin Kusej l’aveva invece riversata nella cronaca nera, assimilandola alla terrificante storia della ragazza tedesca che il padre segregò per dieci anni in cantina ingravidandola ripetutamente. Richard Jones mostrava la presenza d’un mondo segreto dentro la nostra realtà quotidiana, virando il celebre The Others di Amenabar in cinema splatter. Ma tutti, comunque, “raccontavano”. E noi potevamo seguire, chi esaltandosi davanti a un teatro autentico, chi rimpiangendo bosco incantato e laghetto illuminati dalla magica luna: tutti però immersi in una storia. Troppo banale, per Herheim. E via dunque coi quiz.
Se ho capito bene (ma la noia può avermelo impedito) tutta la storia s’incentra sullo Spirito delle acque, mutato in contemporaneo cinquantenne signor Vodnik in crisi esistenziale. Prologo di lunghissimi minuti a musica ferma: piazza con salice piangente; facciata di chiesa con rosone; uscita della metropolitana dove staziona la barbona Jezibaba; bar ricalcato su quello celebre di Hopper; casa con balcone abitata da Vodnik e dalla di lui moglie (che nella storia non ci sarebbe ma pazienza: lei assume la parte della Principessa); sexyshop con bambole gonfiabili che di giorno diventa negozio d’abiti nuziali così come il bar notturno Lunatic all’alba si muta in Solaris (già già: il doppio). Piove per dar l’idea del mondo acquatico. Gente che va e che viene con scenette varie per fare un po’ il verso a Zeffirelli e comunicare l’idea della placida, noiosa vita borghese che però cela degli inferni al suo interno (ma dopo due secoli almeno di letteratura al riguardo, “sapevamcelo” direbbe Petrolini). Il signor Vodnik nota la smagliante battona Rusalka, se ne sente attratto, e da lì inizia ad avere gli incubi che distruggeranno il suo triste tran-tran. Va al bar popolato da altre battone, la premiata ditta Ondine. Rusalka dal canto suo sogna il Principe Azzurro e crede di trovarlo in un marinaio venuto in zona per rimorchiare, che diventa però il doppio giovanile di Vodnik. Profluvio di scene oniriche, con le arie che ciascuno canta appollaiato su una Litfass-pillar (quelle colonne pubblicitarie molto usate in Francia e al Nord, che prendono il nome dal loro inventore) che muta aspetto a seconda di chi ci sta sopra: quando Rusalka canta alla luna, ad esempio, dentro c’è un gran ribollire d’acqua in cui si scorge una coda di sirena. Par di capire che da qui in poi si sta fissi nell’incubo notturno di Vodnik, che (almeno così credo, lui sta sempre scalzo e in pigiama) ricorda come si fosse innamorato d’una bella fanciulla ma dovette lasciarla in favore d’una borghesotta probabilmente danarosa.
Siccome siamo in un incubo, via con un profluvio di scene tanto tecnicamente prodigiose quanto di contenuto puramente autoreferenziale e sganciate le une dalle altre. Le nozze Principe-Principessa sono una sorta di spettacolo-varietà con le bambole gonfiabili mutate in assatanate grassone alla Botero mischiate a maschere di animali marini che sortono dalla metropolitana attorno a Vodnik travestito da Nettuno, mentre gli sposi assistono da un palco con tanto di corona dorata in testa. Ciascuno muore una o due volte. La barbona Jezibaba diventa a un certo punto – e senza alcun costrutto o spiegazione – il doppio di Rusalka. Quello che in nessun modo potrebbe entrare nell’incubo, con disinvolta noncuranza lo si elimina e tanti saluti: spariscono quindi sia il Garzone sia il Guardiacaccia, e le loro battute sono assunte dalle Ondine battone, da un curato e da un poliziotto. Alla fine, mentre le bambole diventano suore assassine, Vodnik rientra in casa, guarda la tele assieme alla moglie, e l’ammazza finendo arrestato da una task force molto stile C.S.I. mentre Rusalka torna alla sua postazione di lavoro sul marciapiede.
In definitiva, la storia di Rusalka che vuole essere diversa ma non viene accettata, diventa la storia d’un anziano in crisi, quindi un diverso che non accetta se stesso. Cambiare tutto affinché cambi poco, insomma, e soprattutto raccontiamo solo stati d’animo stravolti, del tutto svincolati da una storia perché quelle sono per i poveri di spirito: così, dimostriamo d’essere tanto, tanto, tanto intelligenti. Ripeto: uffa, aridateci Walt Disney. Senza contare come operazioni siffatte releghino in secondo piano aspetti banali come un canto metallico e stridente in alto della protagonista; la voce chiara e mingherlina d’un Principe senza nerbo; una Principessa che Annalena Persson rende parecchio sgradevole. Domina la scena il Vodnik di Willard White, che si conferma attore e fraseggiatore eccelso. Direzione in marcato sottordine, da corretta ragioneria musicale, gelida al pari della regia tutta.
Elvio Giudici