interpreti J.-S. Bou, J.-P. Lafont, R. Ferreira, L. Alvaro, R. Mathieu, P. Sheffield direttore Jérémie Rhorer orchestra Opéra de Lyon regia Olivier Py regia video Vincent Massip formato 16:9 sottotitoli fr.,ing dvd Bel Air BAC11 prezzo 24,30
Presentata a Lione in prima mondiale nel 2013 nell’ambito del festival “Justice-Injustice” (che vi affiancava Prigioniero, Fidelio e Erwartung), quest’opera mette in musica un testo scritto da figura senz’altro tra le più carismatiche e destinate ad essere ricordate del nostro tempo: quel Robert Badinter (oggi 85enne) giurista, scrittore, avvocato, che, ministro della Giustizia nel governo Mitterrand, nel 1981 ottenne l’abolizione dalla legislatura francese della pena di morte. Badinter si riallaccia a un romanzo breve di Victor Hugo – Claude Gueux – che m’è tornato alla mente d’aver dovuto leggere in biblioteca qualcosa come mezzo secolo fa per una ricerca scolastica, trovandolo di nobilissima barbosità. Gran merito di Badinter, pertanto, averne eliminato le lunghe tirate parafilosofiche per mettere invece in scena un molto più chiaro e coinvolgente caso di Claude, maturo, analfabeta ma passionale rivoluzionario, il quale, incarcerato per le sue idee, viene angariato dal direttore che si spinge fino ad affamarlo: il giovane Albin gli offre il suo pane e anche il suo amore, tra la violenza cieca dell’universo carcerario che accetta il sesso ma non l’amore, e nel quale di tanto in tanto un coro vestito in abiti civili commenta l’azione, recuperando così l’antica funzione della vox populi del teatro greco col citare stralci della prosa di Hugo. Il direttore del carcere viene ucciso da Claude, tenta il suicidio senza riuscirci, e viene condannato alla ghigliottina.
Un testo dunque molto abile nel sormontare la difficoltà posta da un unico ambiente oppressivo e da una “tinta” narrativa tutta centrata sulla violenza e sulla disumanizzazione che essa comporta, viene messo in musica dal cinquantenne Thierry Escaich (prolifico autore di musica da camera, sinfonica, organistica, qui alla sua prima esperienza teatrale) con un’efficacia narrativa oltremodo notevole. La struttura musicale scansa l’atonalità privilegiando semmai un andamento modale la cui spessa stratificazione viene screziata da alternative dinamiche e cromatiche capaci d’aderire assai bene all’articolazione testuale. Musica capace di raccontare, insomma. E difatti, le accuse di “musica da film” non sono mancate: pecca grave per molti, cui personalmente non aderisco per niente. Il teatro che non racconta, che non costruisce personaggi, che non li mette in relazione reciproca entro un ambiente ben delineato, e che all’uopo non impieghi una scrittura musicale capace di valorizzare la parola rendendola pienamente comprensibile, a mio avviso non è teatro: laddove la musica da film, già per sua intima natura “raccontante”, può esserlo con agio molto maggiore di talune sperimentazioni da musica pura. La questione allora si sposta: è musica “da film” bella oppure no? A mio avviso, siamo davanti ad una delle pochissime opere europee che – in compagnia del capolavoro di Benjamin Written on Skin – sul piano tanto teatrale quanto musicale reggano il confronto con le invece moltissime opere americane che di fatto sono il teatro musicale contemporaneo.
Py organizza una delle sue tipiche narrazioni all’interno d’una imponente struttura a tre piani spartiti in sei riquadri, capace di ruotare su se stessa moltiplicando gli ambienti quasi attraverso piani- sequenza cinematografici, costruendo una gestualità sfaccettatissima, allo stesso tempo metaforica e naturalistica. Il lavoro forzato simboleggiato da una ruota con al centro una croce che i carcerati si passano l’un l’altro; le singole celle chiuse da un lenzuolo su cui si proiettano le ombre dei prigionieri, in azioni diverse ma più alluse che definite; la stanza del direttore, tipico ambiente d’Ottocento borghese; la scena finale centrata su Claude insanguinato per il mancato suicidio, seduto su uno sgabello con alle spalle la ghigliottina, mentre una danzatrice in tutù balla sotto una pioggia di schegge metalliche: tutti momenti di fortissima presa teatrale.
Se la scrittura corale è da cima a fondo un capolavoro, quella vocale, basata su uno spesso declamato (un po’ troppo spesso, talora) con rari sprazzi melodici, presenta più d’una falla. O almeno, tale la rendono prestazioni vocali non ottimali, comunque inferiori a quelle sceniche viceversa tutte eccezionali. Il controtenore di colore Rodrigo Ferreira è un Albin talmente fioco da rendere le sue parole troppo spesso inintelligibili: qui davvero si sarebbe dovuto scritturare un Bejun Mehta, per capire la validità o meno del personaggio. Jean-Philippe Lafont bravo cantante non è stato mai, poi ha solo parlato, adesso fa male pure quello. Ruoli minori nel complesso modesti, eccezion fatta per Rémy Mathieu che dà voce ampia, timbrata e solidissima al Primo Sorvegliante. Claude è Jean- Sébastien Bou, la cui metamorfosi da spiritosissimo interprete offenbachiano è sorprendente: la voce s’è di molto irrobustita e ampliata, consentendo fraseggio ancor più sottile e chiaroscurato, creando così un grande personaggio.
Rhorer, che la critica francese sponsorizza con notevole virulenza, inclina a mio avviso un po’ troppo verso il gigantismo fonico, nel quale c’è più marmellata che nitida articolazione dei piani sonori, ivi compresi quelli vocali che spesso sono sacrificati alla belluria strumentale: però tiene serratissima la narrazione, e molti effetti vanno al di là dell’epidermico per farsi vero linguaggio teatrale.
Elvio Giudici