interpreti S. Piau, M. Beaumont, S. Puértolas, A. Noldus, C. Briot / C. Dumaux, J. Ovenden, S. Karthauser, D. Galou, A. Hallenberg
direttore Christophe Rousset
orchestra Les Talens Lyriques
regia Pierre Audi
regia video Myriam Hoyer
formato 16:9
sottotitoli fr,ted,ing,ol
2 dvd e blu-ray Alpha-Classics 715
prezzo 44,20.
Il problema della regia, nel teatro sia di parola sia musicale, va facendosi via via più spinoso. Da una parte, i quiz vanno dilagando e, come sempre ma in questo caso anche più di sempre essendo questa una strada che pare essere molto gradita a tanti direttori artistici, ci sono i quizzari di talento indiscutibile (a caso: Guth, Warlikowski, Schwab) che comunque stimolano chiamando in causa tutto quello che bene o male sai, sicché risolvere i loro rebus dà una qualche soddisfazione (snobistica, d’accordo; cultural-chic, anche: però sempre soddisfazione è). Ma ci sono anche quelli che talento siffatto proprio non hanno, e resta solo il famolo strano (sullo stile Antonio Latella alle prese con L’Orfeo monteverdiano; e si dice intenzionato a tornare alla lirica, a far danni come e più che nella prosa), che non so proprio quale soddisfazione possano dare. Dall’altra parte, il conservatorismo con le sue due strade: riproporre da qui all’eternità vecchie glorie (la zeffirellesca Bohème viene subito in mente) che sempre più paiono zombi in libera uscita; o ricalcare il teatro di Pizzi provandosi a coniugare la famigerata “eleganza” con una gestualità un filo più moderna. In mezzo, naturalmente, ci sarebbero quei registi – quasi tutti anglosassoni, luminosa eccezione il nostro Damiano Michieletto – che si provano a raccontare la vicenda per quello che è, solo provvedendo a darle un contesto meno coercitivo e soprattutto provvedendo a serrare le fila del racconto così da renderlo comunque sempre chiaro, seguibile e il più possibile coinvolgente sul piano espressivo (che poi, a mio avviso, più semplicemente significa continuare a fare teatro vero). In mezzo starebbe la virtù, conforta la saggezza antica: peccato che come sempre la saggezza sia seguita molto poco.
Audi, in questo dittico handeliano che per quindici giorni vedeva le due opere eseguite a sere alterne e filmato nel 2015 a Bruxelles, segue il modello “Pizzi alla moderna”. Scena buia e totalmente vuota. Quinte modulate a colonne e lesene, e unico elemento scenico una sedia, assunta a simbolo di magia e di potere essendo trono per Tamerlano e letto di morte per Alcina e Morgana (Audi le fa difatti perire entrambe, quella col veleno e questa col pugnale, in un “tableau vivant” che l’accomuna a quello Bajazet-Asteria che chiude il Tamerlano cui Rousset amputa il coro di giubilo finale). Costumi da sontuoso Settecento. Luci assolutamente strepitose, tutte di taglio, di Matthew Richardson, che nel totale buio in cui le figure sono immerse diventano parte integrante della regia accompagnando in modo sempre appropriato la gestualità: molto “agita”, molto cadere rotolarsi ciancicarsi rialzarsi e correre facendo svolazzare crinoline parrucche e spadini, cercando di far interagire i personaggi e talora riuscendoci. Il confine tra regia e recita in concerto con costume che allinea tanti bei quadri alla Boucher, a me continua a parere alquanto labile: ma come ripeto, è un modo – e tutto sommato un modo valido, se non altro perché economico – di mettersi di traverso ai quiz, d’autore o di tolla che siano. E c’è anche da dire che il dittico nasce nel teatrino di Drottningholm (poi ripreso ad Amsterdam e alla Monnaie), dove ben poco si può fare in termini scenografici, se non calare dall’alto un paio di nuvolette ricciolente a rammentare la macchineria barocca: quantunque la memoria, impietosa, va a messinscene Agrippina di McVicar, Poppea di Carsen o Alden o Tandberg, dove pure c’era niente. Tranne una regia, appunto.
Rousset dirige molto bene e i suoi Talens sono come sempre bravissimi: un po’ di accademia serpeggia, tuttavia, in questi ritmi sempre ben calibrati, questi contrasti un filo risaputi, questi colori pastello tanto eleganti, tanto raffinati, tanto…noiosetti. Nei due cast, spicca l’Alcina di Sandrine Piau (incisiva, vibrante, musicalissima, personaggio sempre in tensione) e il Tamerlano del controtenore Christophe Dumaux, debordante d’una protervia scaricata in arie di bravura affrontate con impeto e risolte sempre assai bene facendo così dimenticare una certa qual eccedente querulità timbrica. Più controversa la questione circa una delle figure più originali e gigantesche di tutto il teatro barocco, Bajazet: Jeremy Ovenden non canta male e senza dubbio si sforza d’interpretare, ma spesso eccede caricando troppo le tinte in un impiego parecchio insistito del parlato in quel portentoso e innovativo pezzo di teatro che è la scena della morte. Resta comunque, Tamerlano, il pannello più riuscito tanto scenicamente quanto vocalmente: l’Asteria di Sophie Karthauser è molto brava, l’Irene di Ann Hallenberg eccellente; quantunque un po’ troppo mesta per un ruolo come Andronico – nato nella gola del Senesino! – se la cava abbastanza bene anche Delphine Galou. Zeppa tremenda sono in entrambe le opere i bassi: sommamente sgradevole Nathan Berg quale Leone (che non capisco bene perché Audi ne faccia personaggio quasi ridicolo), e ingolato da paura Giovanni Furlanetto quale Melisso. Maite Beaumont è un Ruggiero molto stilizzato e tendenzialmente anonimo; Sabina Puértolas s’impegna tanto, ma “Tornami a vagheggiar” è scoglio ancora troppo impervio; Angélique Noldus è tanto ma tanto freddina nei panni d’altronde un po’ ingrati di Bradamante.
Elvio Giudici