interpreti K. Tarver, B. Mehta, K. Hammarström, N. Davies direttore René Jacobs orchestra Akademie für Alte Musik Berlin regia Christof Nel regia video Don Kent formato 16:9 sottotitoli Ing., Fr., Ted. 2 dvd Harmonia Mundi 9909028.29
La scena fissa disegnata da Roland Aeschlimann è di potente suggestione: totalmente liberi due terzi di palcoscenico, concluso sul fondo da quattro gradoni sovrapposti ma non paralleli e d’altezza diversa, diversamente praticabili così che, ad esempio, il primo non ha camminamento interno, il secondo ne ha uno molto profondo, il terzo pure ma meno, e il quarto niente come il primo ma con un grande trono che torreggia da un lato. Il coro, oltre ad affollare il proscenio, si muove sui gradoni emergendo solo dalle spalle in su: e questo “effetto mura cittadine” rende oltremodo suggestiva la seconda scena della prima parte, quando i babilonesi irridono gli assedianti persiani dall’alto delle loro mura ritenute unanimemente imprendibili, immersi in una penombra di sapore quasi espressionista.
La materia di cui l’Oratorio tratta, in sostanza, è il passaggio da una forma di civiltà ormai priva di tessuto morale, a un’altra nella quale provano a conviverne due, sorrette entrambe da molto maggiore forza ideale ancorché diverse tra loro per essere formata da gioventù guerriera l’una, e da incrollabile religiosità l’altra. Ovvio pertanto che la scrittura musicale faccia leva su contrasti marcatissimi d’ogni sorta, salvo l’andamento ritmico che funge invece da elemento comune, tenuto su agogiche per lo più sostenute: bestiale ferinità babilonese, giovanile baldanza persiana, irriducibile fermezza ebrea, s’alimentano tutte di ritmi estremamente flessibili ma sempre assai marcati, che difatti Jacobs sottolinea con una libertà articolatissima e priva d’alcuna remora di riuscire a tratti ossessivo. Anche perché, senza farsene accorgere se non alla distanza, all’interno di questa pulsione così pronunciata scava larghe fasce di duttilità dinamica, coloriti sempre mutevoli, articolazione dei piani sonori di scolpitura ovunque nitidissima: sottolineando così con finezza estrema l’elaborato, geniale piano tonale su cui Händel impianta lo svolgimento narrativo.
Se, diversificando gesti e atteggiamenti, Nel riesce a dare fisionomia diversa ai tre popoli, ancor meglio gli riesce plasmare con Belsazzhar, Cyrus e Daniel tre personaggi la cui profonda diversità viene postulata dalla rispettiva musica. Con Belsazzhar e Cyrus sono non soltanto due poteri, a confrontarsi tra loro, ma due ben diversi modi d’essere giovani desiderosi di farsi largo: depravato e paranoico l’uno, pacificatore e sereno l’altro. E la gestualità, aderendo come un guanto alla rispettiva scrittura musicale, lo rende oltremodo evidente. Quello (con la corona altissima in testa, tocco geniale della costumista Bettina Walter) si muove alternando passi felini e contorsioni da rettile, quasi sempre con in mano un lunga ascia che mulinella nevroticamente per ogni dove, cercando a tutti i costi una terribilità che gli serve per mascherare un’evidente debolezza di carattere; tutto capricci, impulsività, fuori di testa con quei continui passi di danza condivisi con una guardia del corpo costituita da acrobati. Questo si muove pochissimo e con gesti nitidi, è quasi sempre solo, a capo scoperto, gli occhi calmi che fissano a fondo nelle pupille degli altri. Kenneth Tarver è un protagonista superbo: canta molto bene ma soprattutto – aiutato anche dalla madrelingua – cesella ognuno dei mai meno che eccelsi recitativi “recitandoli” con la voce che impiega con grande perizia tecnica i continui cambi di registro imposti da una scrittura la cui irregolarità riflette l’ondivaga paranoia del personaggio; ma recitandoli non di meno con tutto il corpo, regalando momenti indimenticabili. Bejun Mehta, dal canto suo, costruisce un vero e proprio capolavoro. Il personaggio di Cyrus, da un punto di vista scenico, è più lineare e in un certo senso semplice di quello di Belshazzar: molto più difficile vocalmente, in compenso. Bellissimo timbro, pieno, luminoso ma con suggestive velature brune in un registro centrale di spessore e risonanza affatto insoliti per una voce di tal genere. Emissione magnifica, governata da musicalità eccezionale e poggiata su una colonna di fiato dove saldezza e morbidezza sono tutt’uno, consentendo alla linea di fluire libera e senza la minima frattura, derivandone sia un legato d’immacolata purezza, sia una precisione ritmica elettrizzante. Spiccatissimo senso della coloratura rapida, infine: “Destructive war”, una delle tipiche gare all’ultimo ghirigoro tra voce e tromba profuse da Händel lungo tutto l’arco della sua produzione, non è certo il vertice espressivo della partitura ma quello virtuosistico sì, e Mehta regge senza sforzo apparente – anzi, ci si butta liberando un’esultanza addirittura fosforescente – l’impegno particolarmente gravoso di cantare un’iradiddio al centro di uno strumentale che alla fitta massa degli archi somma oboi, trombe e timpani.
Al terzo personaggio maschile, il vecchio babilonese Gobryas che ha trovato rifugio presso i persiani di Cyrus dopo che Belshazzar gli ha fatto uccidere il figlio, Händel riserva alcuni dei più bei “lamenti” della propria inesauribile cornucopia. Neal Davies, con un timbro bellissimo la cui bruna pastosità è esaltata dalla morbidezza dell’emissione, è formidabile nell’esprimere una commozione di tanto più intensa in quanto vi si mescolano fremiti di indignazione e di acuto desiderio di vendetta. Kristina Hammarström non solo canta la parte di Daniel con linea magnifica, che nella sua solida compattezza e nella fascinosa morbidezza delle sue scure screziature immette accenti d’incisiva autorità: è tutta la figura, a irraggiare una rocciosa presenza che riempie la scena proprio in virtù del suo “star là” emanando però carisma. Nitocris è una delle creature più perfette create da Händel. Le mette in bocca altissime considerazioni sul destino umano, sulla transeunte gloria dei potenti, sul dolore dei vinti: ma anche nella più cupa delle sue visioni politiche, religiose, storiche persino (è soprattutto nelle sue parole che si palesano gli agganci del libretto di Jennens con la Ciropedia di Senofonte e con le Storie di Erodoto), sempre e comunque parla in lei la madre. Non è facile, reggere richieste tanto impegnative sul doppio fronte musicale e scenico. Rosemary Joshua si trovava in forma smagliante, quella sera provenzale: quel suo vibrato che tanto spesso ne affligge la linea è decisamente sotto controllo, affiorando solo sporadicamente e lasciando campo libero alla strepitosa finezza dell’accento (di tanto più apprezzabile in quanto la gamma espressiva esplora quasi sempre la sfera della dolente tristezza; farne non un limite ma un vantaggio, laurea senz’altro l’artista anche a prescindere dalla rilevante bravura della cantante), che non solo plasma una bellissima figura, ma ne accompagna la varietà espressiva in reazione alle diverse stazioni della vicenda.
Coro e orchestra di livello superlativo, com’è ormai abituale constatare nelle numerose – e invariabilmente interessanti, personali, innovative – registrazioni che vedono Jacobs protagonista: sempre al suo meglio, però, allorché si trova a collaborare con un regista intelligente.
di Elvio Giudici