interpreti L. Zazzo, N. Dessay, I. Leonard, V. Abrahamyan, C. Dumaux, N. Berg, D. Visse
direttore Emmanuelle Haïm
orchestra Le Concert d’Astrée
regia Laurent Pelly
regia video François Roussillon
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
2 dvd Virgin 0709399
Un Pelly al suo meglio. Che non significa automaticamente un grande Cesare realizzato da Pelly. Nel senso che l’ammicco scherzoso, il retrogusto ironico, il generale andamento scanzonato connesso a gesti calibrati uno per uno sul ritmo musicale in tal modo enfatizzato: tutto questo, ci sta a meraviglia con Offenbach, ma con Händel ci sta solo qua e là. Non è, beninteso, un brutto spettacolo giacché Pelly è regista vero, di quelli che sanno benissimo come impiegare lo spazio, quali gesti chiedere a questo piuttosto che a quel cantante, come tenere in costante tensione l’interesse narrativo. Solo, con tutto l’amore riservabile a Offenbach, Händel è Händel e quindi il suo teatro, eccelso com’è, sa sempre coniugare elementi opposti tra loro, impastarli di ambiguità proprio mentre pare stia solo srotolando tesori melodici oppure accendere spettacolosi fuochi d’artificio vocali: e quindi, tra un sorriso e l’altro, una larvata accusa di generale superficialità mi pare abbastanza lecita.
L’idea di base è quella d’una vicenda interamente svolta al pianoterra del Museo Egizio del Cairo, tra un via vai di maestranze alte e basse che l’osservano e occasionalmente vi prendono parte, “entrando” nella Storia che i grandiosi reperti evocano, e ripensando concretamente ai fatti privati dei personaggi che l’hanno determinata, ovvero a storie senza la maiuscola. L’ispirazione non è neppur tanto nascosta, legata com’è alla Notte al museo – 1 e 2 – di Shawn Levy nonché a quella lulliana Armide che Robert Carsen, al Théâtre des Champs Élysées nel 2008, aveva ambientato nel palazzo di Versailles dove il turista Renaud, addormentatosi sul letto di Luigi XIV, vive in sogno tutta la storia. Ma in aggiunta a diversi tocchi lievi lievi che tengono sempre desta l’attenzione, c’è anche un’idea sotterranea che via via prende forma. Le maestranze sono tutte arabe; entrano nella vicenda soprattutto nei momenti di forte contrasto tra romani invasori, ovvero occidentali, ed egizi invasi, parteggiando con energia per quest’ultimi: alla fine, tutti i personaggi – i due morti e i cinque vivi – tornano a irrigidirsi in guisa di statue poste in mezzo a una pila di scatole d’imballaggio dirette ai vari musei del mondo mentre tecnici, operai, curatori, spengono le luci e uno dopo l’altro se ne vanno, indifferenti alle vestigia del loro passato che torna a immergersi nella penombra un po’ polverosa. Un passato, peraltro, ch’era andato intersecandosi con quello più specificamente occidentale: l’episodio di “V’adoro pupille”, col suo impianto di recita teatrale (dove la menzogna dell’apparenza si fa via via realtà di conturbante verità), viene introdotto da una sfilata di quelle grandi tele storico-esotiche in cui l’Occidente declinava a modo suo l’idea ch’era andata facendosi dell’antichità, e che prendono il posto della statuaria precedente, difatti scomparsa; l’ultima a comparire, mostra un paesaggio dominato da un tempio circolare in stile palladiano, e fa da sfondo al canto di Cleopatra che è entrata nella sua cornice abbigliata in sontuosa toilette settecentesca, mentre ai lati le due obbligatorie orchestre in palcoscenico sono formate da signore anch’esse in Settecento.
Se lo spettacolo non terremota l’impianto drammaturgico e neppure arriva a esplorarne ogni possibilità però racconta benissimo, la direzione racconta altrettanto bene e terremota lo strumentale händeliano a mio parere più di quanto riuscì a Christie: non nel senso strettamente musicale, dove Christie è imbattibile, ma su quello di musica pensata per il teatro. La Haïm è un vulcano in perenne eruzione. Magari anche un filo troppo, a scapito soprattutto delle lancinanti, colossali introspezioni psicologiche di Cornelia, autentico personaggio raciniano che qui scade un po’ sbrigativamente a eterna lamentatrice: però che impeto, che profusione di colori, che nitidezza nello scolpire al rasoio contorni ritmici che mettono improvvisamente il turbo alla narrazione, che precisione estorta a un’orchestra il cui virtuosismo (quelle trombe: intonatissime!) è pari a quello richiesto – e in genere ottenuto – alle voci. Una direzione, insomma, tutta pensata in vista del palcoscenico. A me è piaciuta moltissimo.
Lawrence Zazzo se la deve vedere con una scrittura che per un controtenore è parecchio bassa, e difatti giustifica la decisione di molti di preferirgli un mezzosoprano (spesso però con ripensamenti. Minkowski, ad esempio, l’ha incisa con la fragilina Marijana Mijanovic ma portata in scena col portentoso David Daniels in alternanza col quasi altrettanto bravo Flavio Oliver): se la cava più che bene, comunque, con un costante e apprezzabile lavoro sulla dinamica al fine di movimentare al massimo la frase; con uno sgranarsi non trascendentale ma discreto della coloratura; con diversi patteggiamenti in zona grave ma con una luminosità in alto che plasmano – di conserva a una recitazione ragguardevole in tal senso – un Cesare molto lirico e moltissimo sensuale. Isabel Leonard è una sorpresa. Innanzitutto, è perfetta fisicamente e recita veramente bene (quantunque siano entrambi meriti estendibili a tutto il cast); alterna l’ingenuo impeto adolescenziale allo spavento per una responsabilità vissuta come ineludibile condanna, ma anche estrema occasione per un’emancipazione che ogni piega del fraseggio mostra essere la sua ragione di vita. Strepitoso, persino più che a Glyndebourne con McVicar e Christie (ed è tutto dire) il Tolomeo di Christophe Dumaux: canto e recitazione al massimo livello, con sfaccettature di fraseggio quasi incredibili. Al suo fianco, il terzo controtenore è Dominique Visse nelle vesti d’una delle sue ormai consuete checche-chic per fortuna stavolta poco isterica e molto stile sophisticated comedy, che ha il vantaggio di far accettare i frequentissimi scantonamenti nel parlato vero e proprio. Gutturale, ingolato e durissimo Nathan Berg: ancora una volta Achilla è dunque punto debole del cast di un’opera nella quale riveste invece importanza drammaturgica fondamentale (per fortuna, rimedia in parte la sua formidabile presenza scenica, ma resta l’ennesimo rimpianto per quanto potrebbe riuscire a un Pisaroni o un Esposito).
Ma c’è lei, Natalie. Fino adesso, le Cleopatre hanno guardato tutte, chi più chi meno, all’immagine datale da Shakespeare e, un po’ più giù per li rami, a quella della superfemmina che in Elisabeth Taylor ha avuto la sua glorificazione. Natalie, se proprio un modello le si vuole trovare, ha semmai la fisionomia della Cleopatra sbarazzina, impulsiva ma nient’affatto ingenua o men che mai sconsiderata datale da Shaw. Capelli cortissimi, scalza, tubino bianco trasparente, seno sinistro al vento (ma è la realtà romanzesca del palcoscenico; il primo piano, impossibile a teatro, rassicura le anime belle che intravedono la calzamaglia color carne), va su e giù per le grandi statue sdraiandovisi sopra, si muove a rapidi passettini di danza, sorride e ammicca con grazia infinita, ma soprattutto guarda: sguardi tenerissimi o assassini, ironici o intriganti, falso-ingenui o apertamente invitanti, melanconici o francamente dolorosi, un campionario infinito strettissimamente allacciato all’infinito ventaglio di accenti, colori, chiaroscuri, inflessioni, che screziano una linea con qualche microscopica fessura qua e là di cui candidamente dichiaro che non mi può fregar di meno, a fronte del personaggio totalmente reinventato che ci viene posto davanti e che commuove fino alle lacrime chi per avventura vada a teatro per amore anche del teatro e non solo del bilancino vocale, lasciando stare le vetuste incisioni dove devono stare, ovvero in un passato che tanto non torna e chi non si rassegna s’arrangi. Un capolavoro. Grandissima Natalie.
Elvio Giudici