Janácek – Jenufa

Janacek Jenufa

interpreti A. Roocroft, D. Polaski, N. Schukoff, M. Dvorsky, M. Ejsing
 direttore Ivor Bolton
 orchestra teatro Real di Madrid
 regia Stéphane Braunschweig
 regia video Angel Luis Ramirez
 formato 16:9
 sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp.
 dvd Opus Arte 1055

Il naturalismo di Janácek, nient’affatto trasfigurato in romanticismo idealista ma men che mai banalizzato in poster decorativo paesano, si nutre piuttosto del pessimismo sociale di quanti considerano, sì, nemica l’esistenza, però ne scorgono il riscatto in un ritorno alla natura o all’umanità naturale dell’uomo, la cui prepotente vitalità è l’altra faccia della profonda, laica moralità dell’esistenza che per Janácek costituisce imperativo morale categorico: collante per l’adesione psicologica a una precisa realtà sociale, espressa attraverso recitativi melodici ricalcati in modo originalissimo sulla scansione e sulla curva armonica della frase parlata. Non facile, realizzare simile affascinante teatro. Se il forte naturalismo della vicenda  ha insito il pericolo del Grand-Guignol, il perdono finale di Jenufa alla matrigna assassina rischia – ed è peggio – il buonismo alla santino parrocchiale: ma soprattutto, è un’opera in cui guai se orchestra, canto, drammaturgia scenica non realizzino assoluta osmosi reciproca e perpetuino invece la solita gerarchia da teatro lirico antico. Nessun rischio del genere, con un regista dell’intelligenza e soprattutto della sensibilità di Braunschweig.
Il quale chiude il palcoscenico con mobili mura lignee in diagonale, riducendo l’oggettistica a pale rosse di mulino sorgenti a tratti dal pavimento (semplicissime, di per sé: pure, formidabile come si prestino tanto a evidenziare la fortuna mercantile del bellimbusto di paese, quanto l’implacabilità d’un destino messo in moto da ragioni materiali), una piantina di rosmarino, un  lettino di bimbo, panche di chiesa. Oggetti-metafora d’immediato, potente significato teatrale: la scena inscatolata comunica oppressiva chiusura sociale (e le panche della chiesa diventano istantaneamente aula di tribunale), il semplice lettino diventa – con l’ausilio di luci spettacolose – punto focale di tutta la vicenda, scandita da recitazione minimalista eppure articolatissima nella progressiva definizione di quell’intenso lirismo che forma il poetico cuore pulsante dello stupendo teatro di Janácek. Bolton s’è fatto un nome col teatro barocco, ma dirige Janácek forse persin meglio; la Polaski è una delle più intense, sfaccettate, drammatiche Sagrestane mai ascoltate e soprattutto viste; la Roocroft è un filo leggerina su e vuotina giù, ma fraseggio e recitazione costruiscono personaggi memorabile; Dvorsky è un Laca perfetto e Schukoff non gli è da meno.

di elvio giudici


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306 Novembre 2024
Classic Voice