Janácek – L’affare Makropulos

Janacek - Laffare Makropulos

interpreti A. Denoke, R. Very, J. Reuter, A. Briscein, P. Hoare
direttore Esa-Pekka Salonen
orchestra Wiener Philharmoniker
regia Christoph Marthaler
regia video Hannes Rossacher
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp., Cin., Cor.
dvd Cmajor 709508

Marthaler riscosse un successo memorabile al festival di Salisburgo del 1998 con una Kata Kabanova che nonostante la mediocre direzione di Cambreling (pedaggio obbligato d’ogni incarico conferito a Gérard Mortier) si pose quale punto fermo della storia scenica del grande teatro di Janácek: rivisitato al festival del 2011 con risultato assai migliore data la presenza sul podio di Salonen. Una sorta di taglio al laser scontorna con chiarezza e tensione stupefacenti i profili ritmici, intridendoli d’un lirismo che nell’asciutto, compatto ma pure articolatissimo formicolare melodico attinge a toni di epicità per così dire quotidiana (l’unico tono epico possibile, ai giorni nostri) nella sua costante affermazione del valore dell’essere umano in quanto essere capace di sentimenti:  affermazione di tanto più perentoria in quanto vengono fatti avvertire – con l’acuminata spietatezza dell’ironia più nera – i guasti tremendi provocati dalla sua assenza.
La scena fissa di Anna Viebrock è già di per sé un capolavoro, coi suoi tre ambienti che sfruttando l’enorme larghezza di quell’assurdo palcoscenico accostano tre epoche diverse: anni Venti nel mogano scuro dell’aula di tribunale al centro; Sessanta nella sala d’aspetto coi divani plasticati secondo la moda che chiamavano “svedese”; Novanta nel salone molto hi-tech e moltissimo scomodo, caro alla quasi totalità degli architetti cultori del gelo quale supremo ideale estetico, e che pertanto riflette benissimo l’atmosfera di frenetico arrivismo e vuoto morale in cui si muovono quasi tutti i protagonisti della storia. La quale storia viene genialmente sintetizzata dai primi quattro minuti dello spettacolo, svolti nell’assoluto silenzio. Entro una vetrina che elimina ogni sonoro, due donne – una giovane che fuma nervosissima, e una vecchia occupata solo a sopravvivere, appoggiata al suo deambulatore d’alluminio – discutono tra loro articolando frasi che noi seguiamo non con l’udito bensì leggendole come sottotitoli che in sala erano sovratitoli: argomento essendo il come sarebbe bello, e il come potrebbe essere, vivere per diversi secoli. E la speculazione intellettuale dell’una, riflessa nell’arido egoismo dell’altra, configurano esattamente quel vuoto sentimentale che rende la vita una gabbia disumana di routine nella quale si sopravvive come altrettante cavie d’un laboratorio diabolico.
Tipicamente, poi, Marthaler esclude ogni speranza: Emilia muore nient’affatto rappacificata con se stessa, l’inno finale alla vita scolorendosi piuttosto in un’ultima, suprema constatazione d’impotenza e dunque di sconfitta; gli uomini attorno a lei sono preda di tic parkinsoniani annunciatori di vecchiaia disperata e solitaria, fatta di gesti replicati meccanicamente all’infinito esattamente come lo sono quelli d’un sesso praticato quale ginnastica ritmica anziché atti d’amore e comprensione reciproci; nessuna grandezza, nessun carisma in questa Emilia sorella siamese di Lulu, che mostra le (notevoli) gambe coi gesti compulsivi di un erotismo ghiacciato da peep-show, sorta di cubista agée persa in un’aridità ghignante e senza vita che dei molti nostri orrori quotidiani è forse il più spaventoso. Raramente Emilia è altrettanto parsa una morta che cammina, che sopravvive solo grazie agli sguardi di quanti la circondano, per nulla eroina e neppure essere cui riservare una generica pietà: visione alquanto estrema, che personalmente non condivido del tutto ma che sicuramente è svolta con rigore teatrale portentoso.
Grazie anche alla suprema bravura di Angela Denoke. Dopo che Anja Silja ha abbandonato un ruolo marcato a fuoco dal suo debordante carisma (quel gelido pavone creatole da Lehnhoff a Glyndebourne! Quella pirotecnica vamp hollywoodiana che Warlikowski le cucì addosso a Parigi!), la Denoke raccoglie lo scettro vacante affermandosi come l’Emilia per antonomasia dei nostri giorni: uscita da una tela di Mondrian, del timbro nient’affatto generoso – arido, gessoso, puntuto – si fa un laser che scava in ogni frase isolandone con infallibile acume il colore più giusto per imprimerle senso, l’accento più netto per comunicarne l’effetto teatrale, attraverso un ventaglio chiaroscurale che “dice” portentosamente ma senza mai scadere nella parola intonata, sciolta invece in quel particolarissimo flusso melodioso che di Janácek forma la caratteristica più affascinante. Eccellente l’intero cast, peraltro: Raymond Very non  fallisce neppur uno dei micidiali acuti richiesti a Gregor; Johan Reuter costruisce con Prus un capolavoro di cinismo altero e sprezzante, cui la bellezza d’un timbro privilegiato dona un carattere nobile che mirabilmente contrasta con l’aridità disumana fatta percepire dal gioco degli accenti; la toccante pateticità che Ales Briscein conferisce a Janek non ne nascondono, ma semmai ne accentuano, l’inconsistenza caratteriale; impagabile l’Hauk-Sendorf tutto tic e scatti da marionetta fuori tempo massimo creato dal veterano Ryland Davies ex tenorino mozartiano.

elvio giudici


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306 Novembre 2024
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