Mascagni-Leoncavallo – Cavalleria rusticana-Pagliacci

Mascagni-Leoncavallo - Cavalleria rusticana-Pagliacci

interpreti J. Cura, P. Marrocu, C. Davidson/J. Cura, F. Cedolins, C. Guelfi, G. Bermudez
direttore Stefano Ranzani
orchestra Opera di Zurigo
regia Grischa Asagaroff
regia video Nele Münchmeyer
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
dvd Arthaus 101489

Scena sostanzialmente identica per le due opere: astratta, di pianta semicircolare scandita in fondo da pilastri collegati in alto da un camminamento. Luogo esclusivamente teatrale, quindi, privo di geografia precisa e men che meno di facile folclore salvo un vago accenno alla consorteria mafiosa nei compagni di Alfio in classico gessato nero, baffetti e fare altezzoso. Proprio all’inizio di Cavalleria, Santuzza arriva di corsa e in alto scorge Turiddu e Lola abbracciati: viene così definito subito il triangolo sentimentale, portato avanti con asciuttezza e parsimonia gestuale che non sono immobilismo bensì concentrazione espressiva, di tutt’altra efficacia in generale ma toccasana per quest’opera in particolare. L’ossatura del repertorio, in un teatro come quello di Zurigo, deve star su molte stagioni: e uno spettacolo logico, tradizionale, perfettamente reiterabile perché fin dall’inizio la recitazione si basa per lo più sull’apporto di carisma individuale, ha pregi pratici che compensano la mancanza d’una visione originale.
Pregi analoghi ha la direzione di Ranzani. Incisiva, mossa senza schizofrenie, attenta a svolgere una storia mantenendo alta la tensione anche là dove apre squarci lirici di grande intensità. Non per la prima volta, trovo Ranzani uno dei più concreti eredi della nostra grande tradizione lirica: quella che tanto sapeva raccontare (e oggi lo sanno fare in pochi) dipanando con abilità i diversi e aggrovigliati fili di cui si compongono tele narrative che se non impieghi con generosità il rubato, le pulsioni dinamiche, i marcati contrasti cromatici, se insomma non sai essere melodrammatico e insegui il “rigore” (che poi il più delle volte significa ingoiare un metronomo), ti s’afflosciano e cascano da ogni parte; ma se ne abusi facendo lo schizofrenico quanto a tempi e sonorità, non fai melodramma bensì smammolato drammone strappacore, e annoi persin di più, oltre a far ridere. Senza contare l’abilità mostrata da Ranzani nel sollecitare, favorire, sostenere il canto: abilità anch’essa in cui tanto eccelleva la nostra scuola direttoriale lirica, e oggi molti considerano démodé. A torto.
Cura è tanto Turiddu quanto Canio. A stretti termini vocali è a disagio in entrambi: la linea è pesante, spesso opaca, le aperture di suono in regione centrale inclinano parecchio al mugghio e la scalata all’acuto è tutta di gola, quindi col grido sempre prossimo a inquinarla. Però il carisma scenico c’è, e lavora: favorito moltissimo proprio da una direzione attenta a reggerne e valorizzarne ogni inflessione. Un Turiddu insolitamente pochissimo macho meridionale, quasi rinunciatario fin dall’inizio, debole persino: lo scontro vero è delle donne, con Lola che fin dalla prima scena vede Santuzza spiarla, poi l’osserva parlare con Turiddu e scende apposta a provocarla. Proprio perciò è un Turiddu commovente, dunque simpatico: l’addio alla madre, vocalmente tutto raggomitolato su se stesso, magari fa di necessità virtù ma scrive una pagina originale come non si sentiva da tempo. Canio riesce persin meglio, comunque assai meglio rispetto all’incisione solo audio con Chailly. Il fraseggio trova una patina più raccolta, dolente: dove l’amarezza dell’uomo maturo costretto a confrontarsi con una donna giovane non più attratta da lui che pure avrebbe ancora molto da dare (e la delusione l’ha portato a bere, facendogli attraversare tutta l’opera in una sorta di stato stuporoso che, nel portare in primo piano la sua intrinseca debolezza, lo rende speculare a Turiddu), riceve sfumature credibili proprio dalla pasta brunita d’un timbro che attraverso le percettibili screpolature ancora conserva tracce fascinose. E “la commedia è finita” così sommessa, quasi sbigottita, è detta proprio bene.
Paoletta Marrocu è sempre una grande artista. Come la recitazione sa essere asciutta, scabra persino nel lavorare molto di sguardo e quasi niente di braccia, così il fraseggio è incisivo, nitido, mai altisonante: e se qualche acuto è tirato o stridulo o tutti e due, l’accento lo rende però invariabilmente giusto, e i conti teatralmente tornano, cosa ancor più importante della nota, in opera siffatta. Fiorenza Cedolins invece è Nedda splendida di fisico e di voce. La Ballatella non gonfia le note verso l’inno ma, nel mantenersi sull’intimità melodica, diviene un soprapensiero ricco di suggerimenti psicologici. Il duetto con Silvio (dissento energicamente dal mantenervi il taglio delle 46 battute centrali come da scellerata tradizione) è tenuto sul tono di inquieto, desolato attimo rubato, tutto soprassalti e abbandoni sorvegliati. La recita scolpisce ogni parola ma conserva a Nedda – nella linea morbida e luminosa prima ancora che nel gesto – una profonda tenerezza che la regia sottolinea con lo splendido momento in cui lei prova ad accarezzarlo, commossa dal suo ricordare il passato.
Guelfi è un Tonio per una volta non grottescamente deforme ma con solo una lieve gibbosità sulla spalla, che come dovrebbe essere ovvio basta e avanza: come sempre, moderare il tratto scenico induce a fraseggio più vario e scavato, con risultati espressivi eccellenti che compongono un personaggio molto più interessante del consueto. Debolucci, invece, i personaggi di fianco: buono in compenso il coro, ottima l’orchestra, eccellentissima la ripresa video.
Elvio Giudici


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