interpreti J. DiDonato, A. Coote, J.-P. Lafont, E. Gutierrez, E. Podles
direttore Bertrand de Billy
orchestra teatro Covent Garden
regia Laurent Pelly
regia video Olivier Simonnet
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
2dvd Virgin 60250995
È il Pelly dei giorni migliori. Quell’humour leggero e frizzante, quel saper trovare entro un brano a forte componente ritmica un gesto per ogni nota (rifacendosi in ciò all’esempio antico di Ponnelle, ma con ben altra modernità nel tradurlo in un ballo tutte sulle punte, mai volgare ammicco bensì accenno, sberleffo, strizzata d’occhio sensualissima e subito contraddetta dal sollevarsi ironico del sopracciglio), il saper estrarre un profumo languoroso da una bolla di sapone fatta scintillare alla luce di un’intelligenza nell’impiego dello spazio, nella distribuzione dei personaggi sul filo d’una coreografia millimetrica che però dà sempre una sensazione improvvisatoria: è insomma quel Pelly portentoso mago teatrale che ha saputo tirare a lucido alcuni dei gioielli più preziosi di Offenbach e mostrare che nella donizettiana Fille c’è ben altro che nove do tenorili. Il Pelly che, dopo aver tradotto in sublime elegia il Don Quichotte, torna a Massenet per creare il suo ennesimo capolavoro.
La quercia magica che nel regno dei sogni dovrebbe accogliere il fatato incontro di Cendrillon e Prince Charmant, diventa una distesa di camini fumanti che strizzano l’occhio a Mary Poppins. La Fata perde ogni copertura di zucchero a velo diventando una pop star fatalona con capigliatura punk rosso fiamma, scollatura e spacco della gonna entrambi favolosi, ogni coloratura un incedere provocante e un battito delle piume azzurre che ne avvolgono il viso truccatissimo. La geniale rivisitazione baroccheggiante che Massenet fa al minuetto di Lully nei personaggi della matrigna e delle sorellastre; quel sapore scarlattiano nel concertino per liuto e viola che introduce al ballo; quel sapore di antiche melodie popolari francesi (il carillon che suona mezzanotte sull’onda di “Ah vous dirai-je Maman” che incantò anche Mozart; la marcia delle Principesse che corteggiano i sonnacchioso Prince): tutti squisiti momenti musicali, che Pelly incastra nell’atmosfera fiabesca ma eterea e dolcissima creata da una scena fissa che ambienta la vicenda tra lisce pareti neoclassiche rese pagine d’un libro dalle proiezioni su di esse del testo di Perrault.
La gestualità fluisce lieve, priva d’alcun sospetto di smanceria sentimentale e men che meno di cadute grottesche. Al riguardo, riesce persino a limitare la propensione di Ewa Podles nell’impiegare il formidabile registro grave per travestirsi da Baba Yaga: la sua Madame de la Haltière avrebbe dovuto rivedersi la matrigna di Walt Disney, magari col doppiaggio inimitabile della nostra Tina Lattanzi, giusto per avere un’idea di quanto si riesca a ottenere seguendo l’aureo detto teatrale inglese less is more, ma grazie alla gestualità impostale da Pelly, la tela delle gigionate qualche filo di classe la impiega.
Capolavoro sublime, in compenso, la fisionomia che Pelly dà alla Cendrillon di Joyce DiDonato e al Prince Charmant di Alice Coote (viene rispettata, per il Prince, l’indispensabile scrittura mezzosopranile disattendendo la quale la celebre incisione di Rudel con von Stade e Gedda va fuori concorso). Cantano, recitano, accentano entrambe da fuoriclasse. “Reste au foyer, petit grillon”, con la patina dolcemente melanconica e umanissima che riesce a darle La DiDonato, relega la celebre incisione della Sutherland nel limbo dei gingilli da salotto il cui argento scintilla ma resta freddo e inanimato; il duetto con Pandolfe (Jean-Philippe Lafont è al lumicino vocale, ma che accenti, che uso magistrale della parola francese!) è di dolcezza straordinaria; quello col Prince è intriso d’una sensualità tutta a fior di pelle, dolce e trafittiva insieme, affidata a lunghi, saldissimi legati e al fascino d’un timbro morbido, luminosissimo. La Coote, dal canto suo, oltre ad essere fisicamente perfetta e attrice formidabile (le sue controscene alla marcia delle Principesse sono da Oscar subito), canta quasi altrettanto bene e accenta con non minore ricchezza di notazioni. La Gutierrez è tanto intrigante sulla scena, da farsi perdonare taluni passaggi di coloratura un filo aguzzi; le sorellastre sono molto brave, e perfetti tutti i ruoli di fianco. Se anziché il corretto, preciso, garbato De Billy, ci fosse stato sul podio il Minkowski collaboratore con Pelly per i più sublimi Offenbach mai consegnati al disco, la festa sarebbe stata completa: ma festa è comunque. E Massenet, una volta di più, rivela quanto immeritato sia l’ostracismo che da noi gli è stato decretato da parte di tanta togata musicologia.
Elvio Giudici