interpreti B. Christensen, J. Laszczkowski, P. Bardon, T. Mead, G. B. Parodi, M. Solberg, E. Gonzales-Toro direttore Alessandro De Marchi orchestra Norwegian National Opera regia Ole Anders Tandberg regia video Anja Stabell, Stein-Roger Bull formato 16:9 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.,Giap.,Norv. dvd EuroArts 2058928
C’era una volta il Monteverdi formato Dovere Culturale: sublime, certo – e chi s’azzardava a dire di no? – però sublimità esclusivamente musicale. Di teatro come poteva essercene, con tutti fermi atteggiati in pose classiche complete di pepli, toghe, corone in testa d’alloro e non? A intonare versi tra i più belli dell’intera letteratura italiana (ignoti ai più, si capisce. Anche quando i programmi scolastici non erano la barzelletta odierna, tutto quanto odorava di teatro le patrie aule l’ignoravano altezzosamente in favore di versi accademici che – per quanto concerne il Seicento – sono pizze delle più ridicolmente indigeste. Laddove Striggio, Badoero, Faustini, su su fino alla cima costituita da Busenello, sono altrettanti spettacolosi spaccati sociali, politici, sessuali, filosofici, che – letti a scuola in piena adolescenza con relative tempeste ormonali – susciterebbero tutt’altro interesse e tutt’altro argomento di discussione in aggiunta a insegnare l’italiano come pochi altri testi riuscirebbero a fare): versi senz’altro bellissimi, dunque, ma resi sontuosi scheletri che l’assenza di adeguato corrispettivo visivo priva del trionfo di carne, sangue, sensi e terreno cinismo che li fa nostri perfetti contemporanei. Jean-Pierre Ponnelle, nel suo celeberrimo trittico zurighese che traduceva sulla scena la rivoluzionaria direzione di Harnoncourt, rivisitò criticamente tale atteggiamento fissandolo in un archetipo allora fascinoso ma oggi invecchiatissimo (e quindi, da noi, oltremodo rimpianto). Poi vennero allestimenti a vario grado minimalisti, tesi a tranquillizzare i peplo-nostalgici con una gestualità appena appena mossa ma sempre pronta a ricordare che di Cultura (se non proprio Kultura) pur sempre si trattava. Infine arrivò il teatro vero: quello dei McVicar, Alden, Flimm, Carsen, che recuperando l’ironia di volta in volta sulfurea, cinica, disincantata, declinava la storia antica con moduli perfettamente attuali riscoprendovi tutto quanto fa del barocco il teatro musicale più contemporaneo che c’è.
Qui, nel nuovo e bellissimo teatro d’opera di Oslo, uno dei massimi registi svedesi di oggi va oltre, togliendo persino lo schermo della commedia ironica al vetriolo per recuperare invece tutto il teatro della crudeltà, dei tremendi rapporti di coppia, della frustrazione femminile giunta alla resa dei conti, che sostanzia quasi tutto il teatro e il cinema nordico, da Ibsen a Strindberg a Bergman: e libera l’intero, enorme contenuto di violenza che la storia cela nei suoi meandri, nascosta (o non piuttosto esaltata?) entro il lussureggiare di versi che sono altrettante rasoiate inferte a un tessuto sociale svelato per quel nido di vipere assetate di potere e prevaricazione che davvero è.
Nessuna coordinata di tempo o luogo. Una bianca pedana rettangolare coi lati sia lunghi che corti rialzati a conca, immersa in un nero nulla. Vi salgono via via personaggi che indossano abiti solo neri oppure bianchi. La regia televisiva accentua questo contrasto bianco-nero sfumando il più possibile i toni grigi ed eliminando ogni colore salvo il rosa tenue delle labbra e delle gole, e il rosso vivo del sangue: e il cinefilo pensa subito ai massimi capolavori in bianco e nero di Ingmar Bergman. Di sangue, peraltro, ne scorre molto. Punto di svolta della vicenda è la morte di Seneca: che mai è apparsa tanto “morte” come quando Giovanni Parodi (che canta e recita splendidamente) si taglia le vene, e un rivolo rosso schizza sul doppiopetto gessato completo di panciotto, per scorrere poi con impeto osceno sull’abbagliante candore, formando nell’incavo centrale una pozza che via via s’allarga. Il cadavere di Seneca resta a lungo in scena, e nel loro duetto, Nerone e Lucano sembrano ricavarne sempre maggiore alimento per una nevrosi che si spinge ai bordi della pazzia: intingono le mani nel sangue, se le passano sul viso e s’accarezzano con golosa lascivia, giungendo persino – sull’acme del parossismo ritmico – a masturbare il cadavere sotto la giacca che ne ricopre il tronco. E quella pozza è destinata da crescere, crescere, crescere. Muoiono tutti, benché il libretto non lo prescriva esplicitamente: tutti ammazzati dalla coppia infernale che col sangue e col sesso (impastati assieme in pari misura, l’uno come stimolo dell’altro) nutre il proprio delirio d’onnipotenza, uccidendo man mano tutti quanti li circondano.
“L’alimento d’un vizio, all’altro è fame; / il varco d’un eccesso a mille è strada / et è lassù prefisso / che cento abissi chiami un sol abisso”.
Versi, questi pronunciati da Seneca, perfettamente speculari a quelli coi quali Shakespeare legge la Storia come Grande Meccanismo fatto di teorie di gradini saliti uno per uno da chi insegue il potere che, una volta raggiunto, lo farà ruzzolare in basso spinto da un altro che ne emula la scalata: e versi che per una volta trovano un’esatta, spietata, teatralissima traduzione visiva. Culmine il duetto sublime (e chi ne sia davvero l’autore, poco importa) “Pur ti miro, pur ti godo”: Poppea è in abito bianco lungo, i cui bordi immerge ridendo nella pozza di sangue fattasi ormai lago, così come Nerone con gli occhi sbarrati vi tuffa le mani. Il reiterarsi di versi che paiono dissolvere ogni tensione nella beatitudine amorosa, diventano – nel martellare d’accenti sempre più nevrotici e nel ghignante rictus che deforma i due volti – sbarre di follia nevrotica delimitanti una gabbia esistenziale dalla quale esclusa è ogni scintilla d’umanità nel momento stesso in cui questa pare celebrare la propria apoteosi: ed è tratto non solo genialmente teatrale, ma che perfettamente riflette la tematica di fondo con cui Busenello riassume il pensiero politico degli Incogniti, e a cui la musica dona ali enormi.
Ignoro se l’edizione approntata da Alessandro De Marchi sia stata stesa in concomitanza col formarsi dello spettacolo oppure fosse già allestita indipendentemente da esso: ma certo è che vi aderisce come un guanto. Tesissima, incalzante, scabra come ruvida roccia, asciutta e tagliente in un proliferare di ritmi e d’armonie la cui perenne mutevolezza esalta ogni infinitesima sfumatura testuale nel mentre si riflette in gesti perfettamente conseguenti: se la filologia sia disattesa o celebrata non ho idea, e non mi importa proprio nulla: ritengo che a contare sia se teatralmente funziona oppure no, e per quanto mi riguarda funziona a tal punto che, per me, da adesso Poppea ha cambiato definitivamente volto, assumendo quello d’un teatro dalla stupefacente, esaltante modernità.
Merito anche, si capisce, d’un cast nel quale impossibile è separare il “dicitore” di perfetta dizione dal cantante, ed entrambi dall’attore: ciascuno, per giunta, fisicamente ideale per il ruolo che incarna. Jacek Laszczkowski è un controtenore di voce tutt’altro che bella, ma che canta e accenta componendo l’agghiacciante profilo in progress d’una psicologia schizzata che, per essere quella d’un potente, mette letteralmente i brividi. Ottone è invece affidato a voce controtenorile bellissima, di avvolgente luminosità: Tim Mead è da tempo una delle maggiori realtà di questo settore vocale, e compone qui il suo capolavoro d’artista. La Poppea di Birgitte Christensen è una sorta di puttanone volgare e senza scrupoli, che realizza simbiosi perfetta con la sua vocalità fonda e brunita, retta da musicalità strumentale. Di Parodi ho già accennato quanto il suo Seneca sia tra i migliori di sempre: ma strepitosa è pure la dark lady (più dark che lady, a dire il vero) durissima, velenosa, proterva, in cui Patricia Bardon risolve la sua Ottavia; di canto squisito la Drusilla di Marita Solberg e il Valletto di David Fielder; Arnalta s’esprime (e con che accenti s’esprime!) con la voce ampia, timbrata e di bellissimo colore di Emiliano Gonzales-Toro; e Lucano, infine, diventa figura a dir poco gigantesca grazie al canto e all’incandescente recitazione di Magnus Staveland.
elvio giudici