interpreti P. Schumann, R. Croft, K. Kuhlmann, J. Gall, C. Rayam, H. Peeters, D. Brooks direttore René Jacobs orchestra Concerto Köln regia Michael Hampe regia video José Montes-Baquer formato 4:3 sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp. 1dvd Arthaus 102304 prezzo € 29,80
La grande idea scenografica di Paul Roos è trasformare il palcoscenico in un planisfero metallico: immagine metaforica d’una cosmogonia quale specchio del potere assoluto imperiale, personificato nella marmorea grande testa femminile incoronata esposta al Museo Capitolino, che sale dal fondo e verso cui s’avvia Poppea ormai certa della sua presa di potere, riassunta alla fine del duetto conclusivo allorché alza in alto una corona, identificandosi con l’immagine di marmo.
Il sipario si apre sull’arrivo di Ottone sulla sommità del mondo (e dunque si salta del tutto il colloquio tra Fortuna, Virtù e Amore: un vulnus inaccettabile anche nel 1990 quand’è nato lo spettacolo, e incomprensibilmente avallato da Jacobs; il quale, peraltro, completa la propria colpa da pena capitale accettando pure l’eliminazione del personaggio della Damigella, dunque non si ascolta il brano “Sento un certo non so che”. La stima che in genere nutro per Jacobs mi suggerisce di non commentare): il pavimento ha una marcata convessità rivolta verso l’alto, spartita da giunture e bulloni metallici in spicchi che in rilievo hanno la mappa terrestre qual era conosciuta nel Seicento. L’assenza pressoché completa di oggettistica dovrebbe essere finalizzata alla definizione dei personaggi e dei relativi rapporti reciproci attraverso la gestualità: che purtroppo è di banalità desolante. La sensualità, ad esempio, si circoscrive al solito campionario di ancheggiamenti in una luce rosata, bacini e bacetti, gran rotolarsi a terra ma ciascuno per conto proprio. Amore, privato com’è della sua funzione protagonista a causa dell’eliminazione della fondamentale prima scena, è un semplice spettatore, confinato in aria sospeso a una fune: il suo salvataggio di Poppea è solo metaforico, circoscritto a un alone luminoso che circonfonde Poppea. Più in generale, l’elemento ironico-satirico è confinato alla facile comicità della Nutrice secca e segaligna del solito Dominique Visse e della Arnalta di Curtis Rayam, che gioca fino in fondo la carta del politically incorrect d’una mostruosa drag queen nera tutta in rosa. Mentre Seneca torna invece a essere il simbolo d’una filosofia austera e ieratica nei due colloqui con Ottavia e Nerone, fino a una scena della morte principiata coi tre famigli tutti in nero che riempiono d’acqua la cavità superiore del mondo su cui Seneca nudo in perizoma nero si sdraia tagliandosi le vene e restando poi lì durante tutto il duetto Nerone-Lucano, che in una luce verdognola gironzolano con fare dinoccolato rimpallandosi l’un l’altro un mappamondo: ma non basta citare il sommo Chaplin del Grande dittatore perché un piccolo Hampe diventi grande.
La direzione è senza dubbio di notevole levatura musicale, ma – per quanto strano possa essere, trattandosi di Jacobs – vola abbastanza rasoterra per ciò che riguarda il teatro: contrasti ritmici e dinamici ridotti al minimo, colori pochi e invece molta la seriosità che emerge dalla spessa, uniforme densità sonora. Nella quale, per giunta, si dissolvono le parole: affidate a una dizione tra le più scellerate e ai confini della totale inintelligibilità che sia possibile udire su qualsivoglia supporto, e neppure riscattata da barlumi di autentica personalità, che anzi latita in maniera pressoché totale. Croft è un Nerone anonimo, totalmente sprovvisto né di pericolosità né di charme né di sensualità. Sullo stesso piano di anonima sbrigatività, la Schumann. La tristezza della Kuhlmann non s’eleva mai alla tragedia e alla grandiosità del delitto. Jeffrey Gall è l’unico a mostrare un accento, ma anche quello con la vocalità più stremata e il timbro più inaridito. Flebile Seneca, petulante Drusilla, insopportabile l’Arnalta Vizietto-style.
Elvio Giudici