Mozart – Il flauto magico

mozart-il-flauto-magico-Decca

interpreti D. van der Walt, R. Ziesak, A. Scharinger, R. Pape, L. Serra, F. Grundheber
direttore Georg Solti
orchestra Wiener Philharmoniker
regia Johannes Schaaf
regia video Brian Large
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Cin.
2 dvd Decca 0743603

Schaaf – prima attore poi regista di cinema, televisione, teatro di prosa e musicale – sul finire degli anni  ottanta sembrava destinato a diventare figura di riferimento nel panorama teatrale europeo. Firmò alcuni spettacoli di grande interesse (mozartiani prima di tutti) lavorando con Solti e Harnoncourt, poi ripiegò – ne ignoro le ragioni, ove ce ne siano state – su di un’onesta routine. Questo Flauto salisburghese del 1991 è un po’ gattopardesco: in superficie sembra ci siano delle novità, ma nel fondo cambia niente rispetto al solito Flauto austriaco per grandi e piccini.
Ci sono gli struzzi, Papageno è avvolto da piume coloratissime, la Regina ha sia la sua brava falciona di luna sia la solita veste chilometrica, i ragazzi si librano ciascuno su di una bolla di sapone, e naturalmente tutto l’ambaradan massonico-egizio è presente, quantunque un’accentuata stilizzazione (del tipo povero, beninteso, in omaggio all’allora imperante gusto da Brecht formato esportazione per signore timorate: impagabile, il semicerchio di sacerdoti inginocchiati, ciascuno con scarpe moderne ma scalcagnate e diverse) lo renda meno ingombrante del solito. Circa la regia vera e propria, indubbiamente è presente, e fa scorrere la narrazione entro binari oliatissimi da una tradizione immarcescibile, che ciascuno mostra di conoscere per dritto e per rovescio. Di nuovo dice niente, ma il vecchio lo dice molto meglio di tanti altri. Solti è senz’altro la ragione di questo ripescaggio dagli archivi d’una delle prime volte in cui le telecamere tornavano al festival di Salisburgo dopo remoti tentativi degli anni sessanta in bianco e nero: la sua direzione non si discosta granché dalle due registrazioni solo audio, belle quelle e bella questa nella marcatissima vitalità (persino gli interventi del cembalo suonato da lui medesimo, sono brillantissimi: il pubblico impazzisce, all’ultima aria di Papageno cantata davanti all’ammiccante direttore seduto alla tastiera) che sospinge una narrazione secca, incisiva, tirata a lucido nel ritmo e poco o punto preoccupata di ricercare sottotesti e d’indulgere a melanconie o pensosità. 
Il cast, purtroppo, non è identico a quello dell’incisione in studio realizzata da Solti  l’anno prima, che con Uwe Heilmann faceva sentire il Tamino migliore dopo quello dell’indimenticabile Fritz Wunderlich: Deon van der Walt gli è ben poco comparabile, così come Anton Scharinger fa dilagare una viennesità molto grossier, dal gusto oggi tanto ma proprio tanto antico, specie ricordando la mercuriale modernità di Michael Kraus; e fanno rimpiangere la sala d’incisione pure i tanto importanti personaggi bi e tricefali delle Dame, degli Uomini Armati e financo dei Ragazzi. C’è invece anche qui Ruth Ziesak: bella, ottima presenza scenica, canto ragguardevole, ragguardevolissima espressività. Luciana Serra, in una lingua tutta sua,  mitraglia sovracuti un filo più secchi e gessosi del solito, ma che ci sono. Migliore di tutti è René Pape, che proprio con questo Sarastro s’impose definitivamente all’attenzione delle platee internazionali: linea tanto robusta quanto morbida; fraseggio vibrante, autorevole senza essere palloso tanto nel canto quanto nel parlato; presenza scenica accattivante, infine, a imprimere suggello definitivo a un personaggio il cui livello attende ancora oggi d’essere uguagliato.
Elvio Giudici


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