interpreti P. La Placa, M. Ogil, M. Mezzaro, F. Benitez direttore Valerio Galli orchestra Maggio Musicale Fiorentino regia Luigi Di Gangi, Ugo Giacomazzi regia video Matteo Ricchetti dvd Dynamic 37844
C’è un problema molto serio eppure imprescindibile, ogniqualvolta si affronta l’Offenbach dell’operetta: la lingua. Anche Carmen, come ben si sa, soffre parecchio a questo proposito e oggi anche più di ieri, dato che ormai la versione coi dialoghi s’è quasi ovunque imposta relegando i recitativi di Guiraud nella soffitta della veterolirica di provincia: ma tale è la forza della musica, e talmente conosciuta ne è la vicenda, da consentire quasi sempre tagli tali da ridurre i parlati a poche frasette di raccordo. Con Offenbach questo è impossibile, stante che nella costruzione teatrale i dialoghi hanno funzione quasi analoga ai brani cantati. Non solo. Sono dialoghi che sfruttano con diabolica abilità le inflessioni molto particolari della lingua francese: e chi non sia di madrelingua deve essere maledettamente bravo per esserne all’altezza.
In questi quarantacinque minuti di spettacolo messo in scena a Firenze in dittico con Cavalleria (una di quelle bizzarrie che dovrebbero far tanto fino e invece non dicono nulla), per dirla pur con tutta la comprensione e simpatia possibili, l’accento è all’incirca spaventoso. Non si capisce in pratica una parola, in ispecie per quanto concerne le due interpreti femminili: e anche a chi francese non sia, la cosa infastidisce parecchio. Poi lo spettacolo. Raramente un autore è stato altrettanto in sintonia con la società in cui viveva e operava più di quanto non lo fosse Offenbach: benissimo non tentare di ricreare sulla scena la Parigi del Secondo Impero, ma una società ben definita e soprattutto “quotidiana” su cui ironizzare a me pare costituisca il sale d’ogni drammaturgia offenbachiana. Qui abbiamo una sorta di astratta voliera abitata da quattro tizi abbigliati in esotico astratto, che per conseguenza si muovono in modo del tutto innaturale e caricato. E la trama (sposina di fresco che per dispetto sbarra la porta al neomarito, invano consigliata da un’amica e con un tizio che le è capitato in camera dal camino perché in fuga sui tetti da una tizia che lo insidia) perde proprio quel quid di assurdo entro il quotidiano borghese col quale si deve porre in ironico e il più possibile vetriolico contrasto. Pensiamo a una soap opera spagnola del genere La casa de las Flores (sollievo impareggiabile durante questi mesi di clausura…) che perda l’apparente “normalità” con cui si svolgono le cose più pazzamente assurde, per virarla invece in grottesca astrazione: un intellettualismo-chic che impoverisce tutto e fa sgonfiare e indurire un soufflé potenzialmente vaporosissimo.
Galli dirige bene quantunque con un tal quale eccesso di pesantezza; il cast è discreto (Francesca Benitez, in particolare, viene a capo con onore della pestifera Valse tyrolienne, tutta svolazzi e sovracuti), ma senza particolari mirabilie.
Elvio Giudici
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