interpreti A. Nizza, A. Mastromarino, R. Pelizzari, A. Chiuri, A. Giovannini
direttore Julian Reynolds
orchestra Fondazione Arturo Toscanini
regia Cristina Pezzoli
regia video Loreena Kaufmann
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
dvd Arthaus 107333
Cristina Pezzoli fa col Trittico un ottimo teatro puntando non a scenografie mostruose, né a scandalose trasposizioni, tanto meno a provocazioni: semplicemente (ma più difficile, oh quanto, coi tempi che corrono) facendo regia. Riuscita.
Nel Tabarro, ad esempio, notevole è la costruzione passo dopo passo d’una stanchezza di vivere, d’una disillusione esistenziale pronuba di disperate e fatalmente tragiche fughe in avanti (ottima, l’idea della rievocazione di Belleville non gioiosa e pimpante bensì triste, spenta, proprio da “nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria”). Nello Schicchi, i costumi (mix tra il sor Bonaventura di Sergio Tofano e Pampurio) definiscono bene un’ironia grottesca, sempiterna, che punzecchia senza scaccoleggiare: girandola da commedia nera alla toscana entro un azzeccato teatro di prosa. Schivato alla grande, tanto per fare un solo esempio, il rischio della zeppa di “O mio babbino caro”: reso una recita strappaviscere in puro stile Bertini, con continui ammicchi a Rinuccio che difatti applaude, e ai parenti che stanno compunti a criticare, mentre il babbino – babbone, veramente, trattandosi di Mastromarino – estrae un gran fazzoletto e s’asciuga la lacrima d’obbligo del puccinismo, citato quindi con raffinata ironia. Persino la difficilissima Angelica, riesce bene. Con quella zia in alta tenuta borghese comprensiva di cappello con volatile, stile nonna Speranza invecchiata malissimo. Con quelle colonne e pilastri che scivolano creando ambienti diversi: l’orticello di Angelica sostituito – evviva! – da una farmacia conventuale coi suoi bravi vasi dipinti in luogo delle pianticelle che sembrano sempre di pomodoro; e il colloquio delle due donne in un parlatorio con grate, sedili di legno e penombre. Accettabile addirittura il miracolo: il che è proprio un miracolo.
Anche l’esecuzione musicale di partiture tra le più ostiche di Puccini e quindi del teatro lirico in generale, riesce piuttosto bene. La bacchetta di Reynolds fa un Novecento duro, spigoloso, molto gabbie armoniche e timbriche, colori, dinamiche, in luogo del solito micidiale caramello melodico tipico non di Puccini bensì del puccinismo: e la Toscanini suona niente male. Alberto Mastromarino è un po’ ruvido e fibroso lassù, ma quando c’è una vera regia questa si riverbera subito sul fraseggio e i suoi chiaroscuri accentali: sicché in luogo del cantante parecchio grossier in cui talora si svilisce, qui s’ascolta un buon artista. Amarilli Nizza ha estensione alquanto piccolina ma emissione appoggiata con discreto criterio quindi abbastanza morbida, omogenea, capace d’accentare colorire e sfumare componendo tre personaggi ognuno dei quali può avere un paragone vincente, ma che nel complesso sono comunque riusciti. In Annamaria Chiuri la cantante non uguaglia l’attrice e la fraseggiatrice (sicché la Zita, resa sulla scena personaggio a tutto tondo, musicalmente – ardua com’è nel richiedere medium e grave sonori – fa un po’ soffrire, laddove la Zita è memorabile); in generale ottimi tutti i ruoli di fianco, che in una serata del genere contano almeno quanto i principali.
elvio giudici