Puccini – La Bohème

Puccini - La Boheme

interpreti T. Ilincai, H. Gerzmava, G. Viviani, I. Dukach, K. Smoriginas
 direttore Andris Nelsons
 orchestra Covent Garden
 regia John Copley
 regia video Robin Lough
 formato 16:9
 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
 dvd Opus Arte 1027

Nacque nel 1974, questo spettacolo: da allora restato una delle colonne portanti del repertorio del Covent Garden. Hanno deciso che trentacinque anni giusti fossero sufficienti, e che era giunto il momento di mandarlo in pensione: ma anche di fare omaggio al suo autore d’un ultimo rimontaggio con tutti i crismi, ivi compresa una seconda videoregistrazione. Belli, questi atti di profondo rispetto per chi ha compiuto un buon lavoro. Ancora più belli, tuttavia, allorché il ritornare su propri passi non significa inciccirli di paccottiglia superflua bensì depurarli di quella (poca) che c’era, e imprimer loro una teatralità spiccatamente più moderna (ogni riferimento ad altra Bohème di marca nostrana, non è casuale): basta, al riguardo, un sommario raffronto col video realizzato nell’82 con protagonisti – pessimi –  Neil Shicoff e Ileana Cotrubas.
Nell’ambito naturalista (epoca spostata un po’ più avanti rispetto a Murger, verso la fine secolo), lo spettacolo accentua difatti l’impostazione già molto intelligente nell’organizzare lo spazio. Lo caratterizza la struttura verticale impressa alla soffitta e al café Momus. Nella prima e quarta scena, due strette ma alte vetrate a rettangoli fuligginosi fan piovere dal fondo luce fioca su due scalette lignee con ringhiera smangiata, che collegano i due piani d’una scena molto ridotta lateralmente: al livello superiore, un ammasso di tele dai colori appena distinti, libri, ceste; a quello inferiore, stanno stufa lettino e tavolo, che riescono così a comunicare l’idea d’uno spazio angusto in luogo della solita improbabile piazza d’armi. E un elemento di forte caratterizzazione lo fornisce l’evidente appartenere d’un frammento di spazio a ciascuno dei quattro amici: strumenti musicali in quello di Schaunard, libri accatastati in quello di Colline, pennelli tele e tavolozze in quello di Marcello, scrivania fogli e calamaio in quello di Rodolfo. Nella scena di Momus abbiamo ancora due piani e anzi ancor più stretti: strada con entrata del caffè in basso, saletta in alto, che consentono (come in Zeffirelli, ma con tono assai più raccolto) grande affollamento però anche relativa intimità al quintetto d’amici, in un gioco sapientissimo di luci e di colori scuri – immersi nelle pigre, dense volute del fumo di tabacco – che chiama suggestivamente in causa la pittura macchiaiola.
La gestualità, nacque con le caratteristiche immediatamente riconoscibili di teatro all’inglese, ovvero asciutta, sobria, molto più d’atteggiamenti che di grandi movimenti. E il ritornarvi sopra di Copley, anche in tal caso ne accentua l’impostazione modernizzandola con piccoli ma decisivi tocchi (ne cito solo uno: al “chi son? Sono un poeta”, Rodolfo pone in mano a Mimì un proprio quaderno di poesie; è questo, che la fa innamorare), che una compagnia tutta di giovani e giovanissimi recepisce in modo magnifico già di suo, ma enfatizzato dalle riprese di Robin Lough, esempio perfetto di come vada filmato un lavoro teatrale. Andris Nelsons, ex trombettista della Filarmonica di Oslo e allievo di Mariss Jansons, si sintonizza con estrema efficacia all’impianto narrativo di Copley privilegiando un andamento spedito senza schizofrenia, colori pastello, morbidezze senza sdilinquimenti, lavorando sulla dinamica con notevolissimo senso del racconto. Un’ottima direzione, in fin dei conti.
Della compagnia, l’unico nome noto è Gabriele Viviani, che plasma un eccellente Marcello: ma gli altri, s’attestano su un più che onorevole livello, sfruttando a fondo le cospicue doti recitative, messe sapientemente alla frusta dalla regia. Teodor Ilincai, sostituto all’ultima ora di Piotr Beczala, canta con gusto e bella linea vocale, facendosi perdonare la smunta magrezza del registro acuto; Hibla Gerzmava deve perdere qualche chilo e aggiungere più spessore alla linea appoggiandola meglio così da proiettarla con maggiore uniformità, ma l’accento è già quello d’una ragguardevole Mimì, e diversi piani e pianissimi mostrano che manovra il fiato con criterio. Perfetti il Colline di Kostas Smoriginas e lo Schaunard di Jacques Imbrailo; cameo impagabile, inglese che più inglese non si può, il Benoit di Jeremy White; un po’ puntuta la Musetta di Inna Dukach.
Elvio Giudici


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306 Novembre 2024
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