interpreti J. Camarena, C. Bartoli, R. Olvera, U. Guagliardo, O. Widmer, L. Nikiteanu direttore Muhai Tang orchestra La Scintilla regia Moshe Leiser&Patrice Caurier regia video Olivier Simonnet formato 16:9 sottotitoli Ing., Fr., Ted., Cor. dvd Decca 0743467 prezzo € 29,60
All’insegna della schizofrenia. Da una parte, allestimento splendido per arguzia, finezza, ironia, abbondanza di sottotesti teatralissimi che soprano e tenore cesellano ma anche portano all’incandescenza. Dall’altra, direzione in puro stile castigo di Sisifo: i guizzi scenici e i tocchi di genio espressivo di Adèle o Ory ci proietterebbero alle stelle dove sta assiso Rossini, e una gragnuola di macigni strumentali ci buttano giù, verso una palude grigiastra e senza vita dinamica, dove peraltro sta piantato anche il resto d’un cast che allinea l’inconsistenza ciangottante dell’Isolier di Rebeca Olvera, il canto ingolato, durissimo e straziante nella coloratura del Gouverneur di Ugo Guagliardo, l’anonima ragioneria musicale alquanto asmatica del Raimbaud di Oliver Widmer. Una rabbia nera.
Giacché lo spettacolo realizza l’Ory di gran lunga migliore che si sia mai visto. Francia anni cinquanta, di Coty, quando il governo di Guy Mollet scelse l’escalation militare nei confronti della ribelle Algeria e a difendere Suez mandò le truppe, sorta di crociata (moderna ma con le stesse motivazioni economiche sotto mentite spoglie religiose) in compagnia degli inglesi ma contro americani e russi risultati poi vincenti. A casa restano dunque, oltre al soldatino Isolier, le madame borghesi raccolte attorno alla gran patronessa Adèle: impegnatissime, tra tè e pasticcini, a spettegolare cercando di salvare l’apparenza ma ben decise a non lasciarsi scappare l’occasione offerta da un santone molto orsetto piacione che ha parcheggiato la sua roulotte fuori dal paese onde meglio esercitare la sua arte non chiaramente dichiarata ma chiarissimamente allusa ed evidentemente apprezzata, a giudicare dalla faccia di quelle che ne sortono. E quando, giunta in stupenda Dyane 2 cavalli (sogno proibito di tutti i liceali anni sessanta, oh rimembranza…), ci entra anche Adèle, ne scorgiamo l’interno col sofà leopardato contro la parete tutta tempestata di brillantini scintillanti alla luce azzurra che via via vira verso il rosso peccaminoso. Sensualità, ironia, dico e non dico però faccio eccome se lo faccio giacché se per i machi al fronte ogni lasciata è persa, perché per noi no? Basta salvare la faccia, certo, e con la faccia l’eleganza che è parte integrante del godimento. Rossini allo stato puro, quello che si vede. Quanto a farlo sentire, provvedono almeno i due protagonisti.
I rossiniani di stretta osservanza discetteranno senz’altro circa i ruoli Nourrit, come e a chi debbano oggi essere affidati, figuriamoci poi se una voce come quella della Bartoli può ricordare la Cinti-Damoreau e via storicizzando nel migliore dei casi, petulando nel peggiore e più frequente. A me, che vado a teatro oggi, e che nonostante le mie settanta primavere parlare del passato annoia a morte, di quelle voci lì m’interessa un beato niente. M’interessa sentire le note della partitura, e qui le sento tutte. M’interessa che dette note configurino un senso teatrale nell’espressione vocale e, se possibile, nella recitazione. In breve, creino personaggi che all’andare a teatro dia senso un tantino più concreto dell’ascoltare macchinette spara-note da confrontare coi cilindri a cera del buon tempo antico quando, signora mia, si sapeva cantare.
Allora. Vedere questa signora Adèle (orrore, una borghese; ma certo, ha ragione la cara compagna di sepolcro, le Contesse hanno una tutt’altra allure! povero Rossini tradito) che compare rigida come un baccalà, tailleurino nero abottonatissimo, chignon occhialini borsettona e scarpe grosse con tacchi bassi, scende le scale badando a che non ondeggi niente, entra nella roulotte che crede un confessionale e invece è un bordello (e da dove avevamo visto uscire – stremate e godutissime – tutte le sue amiche della canasta del giovedì), sedersi sul divano leopardato e sciorinare la litania della sua vite trista e solitaria mentre Ory le svolazza attorno, sopra e sotto: entro la linea srotolata lungo un legato perfetto, ogni sillaba ha un colore, un’inflessione, un significato, tutti amplificati nella loro simbiosi con una galleria gestuale che esplora tutto il repertorio della frustrazione giunta al punto di non ritorno. E quando s’attacca il tempo rapido, l’intera corazza della signora bene cade pezzo dopo pezzo, il cignon si scioglie, la giacca vola via, la camicetta molla i bottoni superiori, il corpo si muove e la patronessa delle opere pie si metamorfosa in Femmina entro un’iradiddio di coloratura dove ogni gruppetto, ogni picchiettato, ogni terzina è un diverso bagliore che celebra un’esultanza rapinosa, al virtuosismo dando così pieno significato espressivo in luogo di pura belluria vocale buona per ogni occasione. Teatro, dunque: ma teatro musicale al livello massimo possibile in tali circostanze, ovvero lottando contro un’orchestra morchiosa e spessa.
Se la Bartoli si mantiene per tutta l’opera a questa altezza, componendo uno dei suoi tipici capolavori nei quali indistinguibile è l’attrice dalla cantante e dalla virtuosa, Javier Camarena le è ben poco inferiore. Non è Florez negli abbaglianti fuochi d’artificio dei virtuosismi, però lo supera come virtuosismo scenico e canta comunque più che bene.
E.G.