Interpreti D. Barcellona, O. Peretyakto, A. Siragusa, A. Concetti
direttore Michele Mariotti
orchestra Comunale di Bologna
regia Damiano Michieletto
regia video Tiziano Mancini
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp., Cor.
2 dvd Arthaus 101648
Una grande regia la si vede in molti modi. Quando declina in modo moderno, centrandosi sulla recitazione dei singoli e sul loro confrontarsi, una storia la cui inconsistenza sconsiglia di alterarla. Quando la vicenda la racconta da un’ottica nuova, capace di far meglio intendere al pubblico d’oggi dei personaggi piantati in un contesto antico, enucleandone i tratti che più li rendono tuttora validi. Quando destruttura la drammaturgia, provvedendo beninteso a ristrutturarla conservandone la tesi di fondo (che solo quando c’è, consiglia tale percorso altrimenti a forte rischio di solipsismo intellettuale). Oppure, anche, quando inventa di sana pianta una drammaturgia in una storia che ne è desolantemente priva, ma con cui val la pena confrontarsi perché abitata da musica splendida. Quest’ultimo è il presente caso. Uno sconclusionato libretto che ti racconterebbe d’un re andato fuori di testa perché ha ucciso l’amata credendola infedele causa le trame del solito cattivaccio cotto di lei, ma anche interessato al trono e pertanto a renderlo disponibile facendone scendere il legittimo proprietario.
La regia, per raccontare quanto ha in mente, chiede una scenografia che glielo consenta nel migliore e più chiaro dei modi: e Paolo Fantin permette a Damiano Michieletto di fare a meno del solito castello turrito tra boschi ameni, all’inseguimento d’un improbabile gotico fiorito con tutti in posa a gorgheggiare, costruendogli invece il luogo più idoneo per uno con problemi di pazzia, cioè a dire un manicomio. Una corsia di malati di mente, in cui periodicamente la corte entra con fare circospetto e falsamente partecipe: dame imbarazzatissime, “dami” pronti a far piani per un futuro politico in cui sgomitare meglio. Il primario è colui che prima ha salvato l’infelice sposa, e poi la protegge facendola passare per figlia sua: il re dunque la vede, e il fantasma che gli ha per anni abitato la mente sconvolta gli si materializza davanti sotto le sembianze di chi crede sosia della morta. Ed ecco che in un ambiente il cui crudo realismo ricorda Marat Sade di Peter Weiss, s’innesta una storia alla Donna che visse due volte di Hitchcock con un sempre larvato sospetto che possa però essere il pirandelliano Enrico IV: intensità tragica mescolata a misteriosa tensione onirica. Più nessun punto morto, ma soprattutto una tensione costante, fortissima: che arriva a rendere credibile, per via puramente emotiva, una storia che altrimenti non c’è. E come sempre accade in casi siffatti, il palcoscenico accoglie la musica e, serrandola in una storia crudamente realistica, ne rende necessarie anche le giunture più di mestiere. Ma, anche, qui è sempre, sempre, sempre la musica a scandire il ritmo narrativo sul palcoscenico. Da tale perfetta simbiosi, nasce qualcosa in cui il teatro musicale italiano s’imbatte solo di rado: grande, anzi proprio geniale teatro. I passi di coloratura? È il re folle, preda del continuo tic di sfregarsi l’anulare come a togliersi la fede che non c’è più, che s’abbandona ai suoi deliri e provoca reazioni scomposte nei poveri malati di mente che gli si fanno attorno vivendo il proprio dolore e condividendolo, alternando patetica dolcezza a sfoghi rabbiosi di violenza: e quella che sarebbe una lunga aria cantata in divesca solitudine, diventa un pezzo di teatri corale, accrescendosi così moltissimo il suo contenuto espressivo. Immagini della morta si materializzano, a vegliare il sonno turbato del re ma, allo stesso tempo e per analoghe ragioni, a perseguitare l’anima nera del cortigiano: scandendo il doppio, teatralissimo percorso d’una mente perversa che il rimorso fa perdere, e di un’altra che l’amore fa rinsavire. In questa gelida e spoglia corsia d’ospedale, cos’è il duetto d’amore! intriso via via d’un patetismo lancinante, ad aprire le ali a una musica che si riteneva (io, almeno, me ne scuso ma lo ritenevo) fosse solo di buona fattura, e rivestita com’è di teatro la si scopre invece splendida.
Ma le ali, reali o metaforiche che siano, necessitano comunque di aria in cui potersi librare. E Michele Mariotti s’afferma quale il direttore che non solo il Rossini Opera Festival, ma più in generale il teatro rossiniano, aspettava dai remoti giorni di Claudio Abbado. Tempi che saettano veloci per poi distendersi in oasi di stuporoso sbigottimento. Che s’aggrovigliano nel mutare incessante delle dinamiche e nel continuo trascolorare cromatico, entro una trasparenza fenomenale che li evidenzia dando nel contempo loro un significato drammatico all’origine d’una tensione che t’afferra alla prima nota e ti porta dritto all’ultima senza lasciarti mai. Un capolavoro. Musicale, certo: ma musica capace di farsi ad ogni nota teatro, entro un teatro capace di servire con ogni suo gesto la musica.
Qualcosa, altresì, capace di mutare un eccellente cast in una compagnia di cantanti-attori da Oscar. Sentita solo di rado una Daniela Barcellona altrettanto brava e padrona d’una parte che pare scritta per lei: ma mai altrettanto attrice. Scalza, capelli corti arruffati, camicione sudicio, occhi sbarrati, tic continui che la rattrappiscono contro una parete: ogni nota un gesto, ogni nota un gioiello musicale, ogni gesto una trafittura espressiva. Capolavoro. Olga Peretyatko è d’una bellezza da togliere il fiato ma sa anche cantare assai bene, innervando per giunta questo suo timbro pieno e luminoso con accenti di lancinante poesia. Antonino Siragusa fa il cattivo, per cui il timbro non baciato dagli Dei va benissimo: come benissimo canta fraseggia e recita. Andrea Concetti, primario-padre, completa la festa con un’aria resa indimenticabile.
Elvio Giudici