interpreti G. Celenza, C. Feola, D. Adriani, A. Sapio, C. Osella, C. Feola direttore Gabriele Bonolis orchestra Reate Festival Orchestra regia Cesare Scarton regia video Maxim Derevianko sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp., Cor., Giap. dvd Dynamic 37830
Bellissima iniziativa dunque, quella del Reate festival, di allestire una serata con questi due smaglianti gioielli di teatro musicale. Percorsa da inesauribile inventiva e straordinaria leggerezza di tocco, la Notte è una breve farsa brillante e festosa al cui impianto musicale tradizionale fa riscontro un risultato di piacevolissima levità. Definire facile e d’immediata fruizione una partitura potrebbe far supporre che essa è solo orecchiabile (pura illusione, perché risulta quanto mai difficile canticchiare Rota), facilona e magari triviale. E invece no: è proprio la limpida scorrevolezza il frutto più prezioso d’una sapienza compositiva quanto mai raffinata, d’una superba finezza nell’orchestrare e d’una rarissima capacità di sintesi narrativa. Stile oltremodo originale, insomma: che lo rende immediatamente riconoscibile, solleticando uno stuolo parecchio folto ancorché dissimulato di seguaci, per non dire imitatori. Buona parte del merito di quest’opera spetta all’elegante libretto di Bacchelli, che narra le tragicomiche vicissitudini di un signore colto e raffinato ma nevrastenico (un po’ l’autoritratto del famoso scrittore), che scende in un albergo dove ha prenotato tre stanze: una per dormirci e le due contigue per assicurare silenzio al suo riposo. Ma in città c’è la Fiera, gli alberghi sono presi d’assalto (forse siamo proprio nella Milano degli anni Cinquanta): sì che l’avido portiere affitta una stanza a un Commendatore giunto appunto per la Fiera, e l’altra a una coppia di amanti clandestini. Moltissimi, gli scintillìi di questo gioiellino: l’ironia dell’Ouverture, col suo caricaturale senso di mistero, volutamente esagerato; la rassegnata elencazione di tutti gli inconvenienti alberghieri del giorno d’oggi, dove il retrogusto raveliano è reso personalissimo dalla svogliata sovrastruttura jazzistica; il fascinosissimo valzer lento su cui si innesta il duetto d’amore della coppia clandestina; la concitazione e i sillabati pararossiniani del quintetto dei protagonisti. Il tutto è giocato su un testo teatrale emblematico dell’ironia intelligente, elegante e distaccata dell’epoca (alla Flaiano o alla Calvino, per intenderci). Un testo gustosissimo sia nelle situazioni – come quando il nevrastenico non sente cadere la seconda scarpa del Commendatore e si lamenta di avere una scarpa di Damocle sospesa sul suo sonno – sia nel linguaggio: il protagonista ama citare Dante – rimpiangendo di non poter dire “E caddi come l’uom che sonno piglia” – e Shakespeare, in particolare “Macbeth, che assieme a Duncano ha ucciso il sonno” salvo poi, oltrepassato l’orlo della crisi di nervi, sbottare “Che me ne frega a me di re Duncano?”. Il sorriso insomma – quella “cosa” tanto diversa e vivaddio migliore della risataccia – regna sovrano in questo piccolo capolavoro.
I due timidi tratta invece di due innamorati che per timidezza non si dichiarano, e per situazioni contingenti sposano un altro/a, costruendo due matrimoni tristi: si sorride molto meno, la malinconia intride con diverse gradazioni le dodici brevi scene, profumando alla fine di rassegnata amarezza ma sempre con tinte delicate, sempre la stessa farfalla che svolazza leggera sui tasti d’un pianoforte suonato divinamente.
La serata reatina rende piena giustizia a questi gioielli, riuscendo nel fare tutt’uno del doppio versante teatrale e musicale. La scena unica è intelligente (col letto del nevrastenico reso una sorta d’altare al centro d’una stanza tappezzata di fogli di giornale, levato il quale diventa il cortile del condominii abitato dai due timidi), la condotta gestuale impostata da Cesare Scarton è spiritosa senza scadere nello spiritato, l’orchestra di Gabriele Bonolis scintilla di tutte le sue molteplici luci, accompagnando un cast scelto con cura felice, nel quale emergono il nevrastenico Giorgio Celenza, e i timidi Sabrina Cortese e Daniele Adriani ma solo perché fanno risaltare le rispettive parti, tutti essendo perfetti nei loro ruoli, piccoli ma parecchio impegnativi.
Elvio Giudici
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