Rota – Napoli milionaria

Rota - Napoli milionaria

Interpreti A. Antoniozzi, T. Fabbricini, V. Corradetti, L. Caimi, B. Quiza
direttore Giuseppe Grazioli
orchestra Internazionale d’Italia
regia Giuseppe Grazioli
regia video Maria Novella Fabiano
formato 16:9
sottotitoli It., Ing.
dvd Festival Valle d’Itria

I primi decenni del dopoguerra italico sono stati fecondi di molte e fondamentali cose, in ambito culturale. Però anche di diktat che, in nome d’una cultura intesa quale Sacro Principio Superiore (quindi, come tutti i principi, da imporre dall’alto), hanno svolto funzione asfittica nel libero scoppiettare delle numerose fascine che la dichiarata estraneità a tale ambito sacro faceva ritenere potessero riscaldare soltanto gusti retrivi, ovviamente indicati quali borghesi: con tutto quanto tale spregiato termine comportava in quegli anni là  (lunghi. Molto lunghi). In ambito musicologico, unico Principio ritenuto valido era quello della Scuola di Darmstadt: coi relativi musi dell’armi rivolti ai compositori contemporanei che non vi si adeguassero. Figuriamoci poi un compositore che praticava anche la musica per il cinema: canzonettaro era termine dei meno insultanti perché almeno era un termine, dato che nella quasi totalità dei casi tale settore musicale neppure era ritenuto degno d’una definizione purchessia. Certo che c’era stato il Prokofiev dei due film di Ejzenstejn o anche (quantunque assai meno citato) l’Hans Eisler delle Vergini di Salem di Raymond Rouleau: ma li si riteneva appunto la classica eccezione, comunque da nota a piè di pagina. E sotto silenzio passava quindi – giusto per estrapolare una manciata d’esempi dal plotone possibile – la splendida musica scritta da Goffredo Petrassi per Giuseppe De Santis o Valerio Zurlini. Nessun cenno al puro genio di Dimitri Tiomkin sul cui ritmo Fred Zinnemann scandisce l’intero montaggio di Mezzogiorno di fuoco, con ciò scrivendo pagina nuova e fondamentale nel libro del linguaggio cinematografico. Ma nemmeno per Giovanni Fusco che, in materia di colore e atmosfera emotiva, stabilisce con le inquadrature di Antonioni una simbiosi paradigmatica, in tutto analoga a quelle ancor più geniali di Bernard Herrmann per Dieterle e per Welles (fenomenali i brani operistici di Quarto potere), fino al vertice costituito dall’Hitchcock della Congiura degli innocenti, della Donna che visse due volte e, vertice tra i vertici, di Psycho. Tutti esempi di musica che non commenta e men che mai accompagna l’immagine: bensì stabilisce con essa un rapporto simbiotico che potenzia e fa diventare “altra” tanto questa quanto quella.
Esempi ai quali Nino Rota appartiene in toto: facendo di lui un grande compositore senza se e senza ma. Capace pertanto d’affrontare, come ha fatto, ogni genere musicale lasciandovi traccia subito riconoscibile d’una personalità originale e affascinante, a definire al meglio l’essenza della quale resta tuttora valido il “farfalla sul pianoforte” coniato da Fedele D’Amico. E farfalla oltremodo meritevole di tornare a volare è quest’opera.
La quale, alla sua prima esecuzione al festival di Spoleto del 1977 guidato dall’estro mai abbastanza rimpianto di Romolo Valli (dirigeva Bruno Bartoletti, regia di Eduardo, protagonisti Silvano Pagliuca con le quasi debuttanti Giovanna Casolla e Mariella Devia), riscosse uno di quei pollici versi intrisi di sberleffi derisori che sembrano fatti apposta per essere citati, anni dopo, quali esempi perfetti di stupidità critica: ma che comunque troncarono tale volo sul nascere (autentico scandalo dei più vergognosi, senza cercare inutili perifrasi, l’annullamento che il San Carlo fece della già annunciata serie di recite di un’opera che un cumulo di ragioni suggeriva a quel luogo di replicare invece con continuità), sicché la sua riproposta al festival della Valle d’Itria del 2010 fresco di cambio di gestione – “o cambio felice”, oserei dire con Mozart considerando gli errori e orrori degli anni precedenti – costituì non solo l’irrompere al festival d’aria finalmente nuova e corroborante, ma una decisiva prova d’appello per un’opera così ignobilmente dimenticata. Prova, a mio avviso, non vinta ma stravinta. E nell’unico modo possibile in siffatti casi: farne comprendere appieno le ragioni musicali e teatrali in virtù di esecuzione ottima e regia intelligente.
Lo stesso Eduardo è autore del libretto, in cui rielabora a fondo la sua commedia del 1945: virando nel cupo pessimismo degli anni di piombo – proprio allora, l’anno avanti la morte di Moro, giunti al loro apice -, il lumino di speranza acceso allora con la celebre battuta finale “ha da passà ‘a nuttata”, sostituita da “la guerra non è finita” (gemello del tremendo “guerra è sempre” di Primo Levi), dopo diversi altri cambiamenti significativi quali la morte da delinquente del figlio Amedeo. A scanso d’equivoci, sono incrollabilmente del parere che Eduardo sia l’unico autore italiano di teatro capace di stare sullo stesso piano di Goldoni, sopravanzando – e neppur di poco – Pirandello: ma se il testo di partenza resta il capolavoro che sempre è stato, il libretto mi pare invece alquanto meno riuscito causa l’avvertibile mancanza d’un collante che serri tutta la narrazione, tendenzialmente dispersiva nella molto maggiore collettivizzazione in cui è tenuta. Ma è appunto qui che rifulge il genio sommesso di Rota. Capace di rimediarvi con una musica nel cui composito eclettismo (jazz, blues, grande ondata melodrammatica, piccolo spruzzo di canzone, grande concertato tragico-comico della finta veglia funebre sotto i bombardamenti) si plasma una conversazione musicale straordinariamente duttile oltre che di eccezionale modernità: musica che nel permeare ogni anfratto della vicenda, la rinsalda in mirabile esempio di teatro musicale.
Difficilissimo, ben lo sa ogni amante di Puccini, è saper conversare in musica. Occorre un direttore bravo per venire a capo di passaggi assai intricati, ma anche capace di organizzare e guidare il continuo, ondivago dialogo musicale: Giuseppe Grazioli lo ha fatto bene, ripercorrendo con abilità le orme del grandissimo Bartoletti di trentatré anni prima. Ci vuole un regista capace di serrare quanto più possibile la narrazione facendo più Rota che Eduardo: appunto questo fa Arturo Cirillo, riuscendoci benissimo. Ma soprattutto, imperativo è che sul palcoscenico agiscano dei cantanti-attori: tipologia d’artisti di cui l’Italia non è particolarmente prodiga, sempre all’inseguimento com’è dell’esclusivo miraggio della voce-voce-nient’altro che voce. Qui invece li hanno trovati, componendo un cast al riguardo ottimo, su cui però svettano due autentici mostri di scena quali Alfonso Antoniozzi e Tiziana Fabbricini.
Vero che lui, nel modellare il proprio eccelso fraseggio calibrando ogni accento su di un gesto (o sull’assenza del gesto – certo irrigidirsi di tutta la persona per lavorare interi minuti solo di sguardi, ricrea l’arte di Eduardo senza però minimamente imitarla, facendone anzi creazione del tutto personale), non rinuncia mai al canto: e canto ovunque morbido, corposo, governato da musicalità eccezionale. Laddove lei inclina con marcata eccedenza al parlato, e non sempre intonato neppur quello. Ma la rabbiosa febbre di vivere di Amalia, il suo “è così difficile essere felici” (per rubare una battuta al pucciniano Tabarro) plasma un personaggio tutto occhiate in tralice, irrigidimenti, gesti secchi: memorabile tutto, ma menzione particolare per la bellissima “Dint’a ‘sta casa” del terz’atto. A fronte, però, cosa riesce a essere la fulminante ironia di cui è prodigo Gennaro al prim’atto! L’umorismo al vetriolo che Antoniozzi distilla in “Tutti i tranvieri a spasso”, riporta alla memoria il celeberrimo duetto Eduardo-Totò nel film che lo stesso autore trasse dalla sua commedia: e per il quale proprio Rota aveva scritto la musica, abbozzando molti spunti che ritroviamo qui. Oppure, cosa riescono ad essere gli sguardi con cui illumina e dà significato all’intero terzo atto! Il suo stare immobile, gli occhi sbarrati nel vuoto a farti “vedere” quanto la memoria allucinata ma lucida dei giorni di guerra gli riporta davanti, con ciò chiedendo imperiosamente che l’umanità dolente di cui il suo Gennaro è intriso venga ascoltata e soprattutto capita, oggi forse persino più di allora: “Si sparava” è un declamato melodico in cui un grande musicista non solo raccoglie tranquillamente l’eredità di Puccini, ma guarda senza timore all’esempio verdiano; è così che bisogna farlo, ed è così che lo plasma qui un eccelso artista. Teatro al massimo livello: quello dove la differenza tra prosa e opera s’annulla, solo teatro e basta.
Leonardo Caimi recita con composta intensità, e canta assai bene: la splendida aria di Settebellizze (che il libretto fa senza infingimenti l’amante di Amalia, cosa che la democristiana Italia del ’45 – oh memoria d’antiche miserie! – non avrebbe tollerato sicché la commedia sfuma il sesso nell’amor platonico, senza peraltro che nessuno ci abbia mai creduto un secondo) e l’ancor più riuscito duetto con Amalia, sono due grandi momenti. Valentina Corradetti fa uno zinzino troppo Puccini, a mio parere, pur facendolo bene al pari di Borja Quiza: insieme, danno forte spessore al duetto tra Maria Rosaria e Johnny, magnifica pagina dove il testo crea uno straordinario eloquio american-partenopeo offrendolo su un piatto d’argento a una musica che genialmente fonde echi di blues e di ragtime con abbandoni melodici la cui scoperta melodiosità si tinge di quella disperata melanconia con cui la canzone partenopea, quand’è davvero grande, getta un ponte a ritroso verso la lontana tradizione dell’opera napoletana. Formidabili infine i ruoli di fianco, determinanti affinché si crei l’esatto quadro ambientale: il Riccardo di Luigi De Donato, il “Miezo Prevete” di Domenico Colaianni, l’Adelaide di Anna Malavasi, il Federico del promettentissimo Mattia Olivieri, non avrebbero sfigurato neppure un momento nella compagnia di Eduardo, perché stanno benissimo in quest’opera che – lo ripeto volentieri – di quel teatro è pienamente all’altezza. L’anonima ripresa video (ma perché anonima?) non rovina la festa: inaugurando una collana di riprese in diretta degli spettacoli di Martina Franca che ci si augura vivamente possa continuare anche ai nostri giorni economicamente tanto tristanzuoli.
Elvio Giudici


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