[interpreti] N. Michael, M. Volle, T. Moser, M. Schuster
[direttore] Philippe Jordan
[orchestra] teatro Covent Garden
[regia] David McVicar
[regia video] Jonathan Haswell
[Formato] 16:9
[Sottotitoli] It., Ing., Fr., Ted., Sp.
[2 dvd] Opus Arte 0996D
Impossibile dar conto di simile iniezione di genio nello spazio breve d’una recensione. Impianto scenico mutuato non da un luogo specifico ma dall’atmosfera generale del Salò di Pasolini, con l’analogo intento metaforico di luogo dove un potere dittatoriale distrugge ogni nervatura morale e quindi assuefà alla violenza riducendo i corpi a oggetti da amare o odiare ma in entrambi i casi da distruggere, come un bambino fa coi propri pupazzi (“c’è qualcosa d’infantile nel fascismo, in ciò che può far fare della e alla gente”, sostiene con ragione McVicar nel lungo e bellissimo bonus). Palcoscenico diviso in due. Parte superiore con cena di gala immersa nell’oscurità, collegata con scala elicoidale all’inferiore dove si svolge la vicenda: squallida camera di disimpegno per latrine e cucine annesse, dove stanno militari armati, cuochi, guardarobiere in grembiulino bianco, giovanissime fanciulle svestite da offrire quale extra ai commensali del piano di sopra spiati dalla scala come si fa con le bestie esotiche d’un favoloso ma pericolosissimo zoo. Recitazione che non si può descrivere, tutta ricalcata com’è sulla minima inflessione testuale e più ancora musicale: personalmente, non ho mai visto niente del genere in quest’opera, nessuna differenza essendo rilevabile tra i cantanti e i molti attori (sono attori inglesi, vale a dire i migliori del mondo) destinatari dei ruoli muti di cui sopra, moltiplicati allorché i commensali scendono e si mescolano agli altri, così da accomunare in uguale complicità vittime, carnefici e spettatori impotenti ma solo perché non vogliono. Così come nessuna danza dei sette veli è lontanamente paragonabile a questa. Sette stanze che scorrono in orizzontale, immerse nella fitta oscurità, percorse da Salome ed Erode che si rimpallano una bambola di pezza; lei si siede sulle sue ginocchia, poi raccoglie un velo bianco che copre uno specchio ovale e se ne serve per nascondere prima il proprio poi il viso d’Erode; sul fondo si proietta in color seppia un corsetto con una cerniera lampo che lentissima si apre, e lui ne fa scorrere un’altra per far scivolar via il vestito di lei, che in un’altra stanza inguaina in un vaporoso abito da sera per ballare assieme un valzer sotto l’immagine proiettata d’un enorme lampadario splendente e visto di sbieco. È un viaggio nell’abisso della memoria, l’assassino del padre (rinchiuso in quella stessa cisterna che adesso s’illumina dal basso riflettendo la propria ombra fin sul soffitto) ne circuisce adesso la figlia ancora bambina, la fa crescere nell’atmosfera torbida e senza freni propiziata dalla dittatura, lei nello scoprire il sesso che pulsa in ogni mattone della casa capisce anche se stessa, e quel sotterraneo diventa metafora della latrina dove scola tutto il putridume evacuato da quella gente immobile e ghignante. Nonostante lo splendido spettacolo torinese di Carsen, questa è la più bella Salome che mi sia capitato di vedere nella mia ormai lunga frequentazione del teatro lirico.
Anche perché molto raramente ho ascoltato simile direzione: profili ritmici scontornati col rasoio ma avvolti da colori rutilanti, morbidezza come di carni sfatte dalla lussuria appaiate però a dolcezze struggenti, disperate, un senso generale di acre desolazione che nell’aprire i recessi più neri ne scopre, nascoste ma non cancellate, tracce di smaltata tenerezza. Nadja Michael è l’insostituibile Salome dei nostri giorni, ma qui supera se stessa tanto in scena quanto nel canto più che mai interiorizzato e ricco di sfumature. Michael Volle è un tonante ma mai ruvido Jokanaan (portentoso, come regge la scena in cui pone le mani sulla nuca di Salome, come fosse ancora sul Giordano e battezzare adepti); se Michaela Schuster si conferma uno dei più preziosi acquisti nel campo dei ruoli di carattere mezzosopranili, Thomas Moser è un’autentica rivelazione nel plasmare un Herodes affetto da infantilismo cronico e perciò oltremodo terrificante nell’avere quel potere che la massa nervosa degli astanti gli riconosce ma senza saper mai dove andrà a colpire.
Elvio Giudici