Interpreti M. Chiara, K. Johansson, D. Zajick, J. Pons, N. Ghiuselev direttore Nello Santi orchestra dell’Arena di Verona regia Gianfranco De Bosio regia video Gianni Casalino formato 4:3 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp. dvd Arthaus 107253
Fu, questa del 1992, una delle ultime Aide di Maria Chiara. E siccome già consegnate al video erano la sua veronese del 1981 (lo spettacolo un po’ interlocutorio ma non brutto di Giancarlo Sbragia) e la scaligera del 1985 (lo spettacolo di Luca Ronconi, a conti fatti il migliore che dell’opera fornisca il catalogo video), credo proprio che questa potesse essere confinata al pietoso ricordo: risparmiando, all’immagine d’una cantatrice in fin dei conti di riguardo, il grave colpo inferto col documentarne un’organizzazione vocale che – da sfarzosa qual era – appare qui in accentuata fase di disfacimento.
Il fiato non appoggia più ma s’attorciglia sull’irrigidirsi della muscolatura, emesso con spinta costante della gola: già al primissimo la acuto di “pavento” siamo all’urlo, e lì restiamo per tutta la sera, con una linea acciottolata e a gradini, affetta da accentuato vibrato ogni qualvolta non può proprio evitarsi un piano o quantomeno una sua imitazione (nell’aria del terz’atto, “o profumate rive” sembra scalare con immane fatica i gradoni dell’Arena), stringendo sempre più il suono ad ogni minima ascesa all’acuto, così che il timbro pare decolorato, gessoso, l’ombra della sfarzosa opulenza d’un tempo. Preoccupata com’è dell’emissione, la gestualità – sempre stata prossima al ground zero – varca a ogni dipresso i confini del grottesco: quel suo buttare le braccia in avanti sovrapponendo i polsi a “di catene avvinto”, o il togliersi il mantello all’attacco di “Fuggiam gli ardori inospiti” guardando fisso Radamès con intento seduttivo, sono cose che nemmeno all’oratorio sotto casa.
Tutto lo spettacolo, d’altronde, è un delirio che scimmiotta la famosa frase verdiana “torniamo all’antico e sarà un progresso”, senza tener conto del fatto che – quando gli conveniva – Verdi mentiva spesso, e questa frase è forse la più menzognera che abbia mai pronunciato in fatto d’estetica musical-teatrale.
Veniva difatti ripreso lo spettacolo di de Bosio del 1982, basato sull’intento di ricreare pari pari le scenografie di Ettore Fagiuoli con le quali Aida inaugurò nel 1913 la prima stagione lirica all’Arena. Non so dire se Rinaldo Olivieri abbia mostrato meriti reali di fotocopiatrice perché, per quanto anziano, non lo sono così tanto da esserci stato nel ’13 (all’Arena entrai la prima volta nel ’58 beccando la fortuna del quattordicenne, giacché Aida la cantava un’ancora sconosciuta signora americana di colore rispondente al nome di Leontyne Price, affiancata dagli invece ben noti Franco Corelli, Fedora Barbieri, Giangiacomo Guelfi a completare il cast guidato da Tullio Serafin. Altri tempi, come dicono sempre gli anziani che però talora possono avanzare, a mo’ di Butterfly, l’interrogativo retorico “Verità?”): posso solo dire che, anche a tener conto del prevedibile sgranar d’occhi d’un ragazzino alla sua prima Arena (che come molte altre prime cose, effettivamente non si scorda mai), lo spettacolo di Piero Zuffi era senza confronto meglio.
Il mastodontico palcoscenico è qui interamente coperto di materiale dorato, che sale fino a metà del sovrastante emiciclo di gradoni: con qualche colonna non troppo dritta; una statuona pensosa per via del braccio destro ripiegato con mano sotto il mento; luci da sotto a fare ambient tra una sfilata e l’altra particolarmente fiacche forse per via del caldo, quell’estate in effetti insopportabile (alla fine del terz’atto, la corsa dei quattro soldatini alle calcagna di Radamès va vista per poterci credere. E siamo nel ’92, non più nel ’13!). Il tutto miserello, comunque: la cartapesta risultando oltremodo evidente e producendo effetto a metà strada tra Son et Lumières – quel tipo di roba turistica che i francesi spacciano per genialità luministica mentre è solo kitsch d’accatto – e avanspettacolo in spedizione punitiva presso le sagre paesane più decentrate. Peggio di tutto, comunque, i costumi. Non essendosi rinvenuta traccia dei bozzetti del ’13, s’è pensato bene di copiare addirittura quelli di Mariette del 1871: delle gualdrappe tremende di stile stranissimo ammassate una sull’altra con effetto cromatico forse vintage ma certamente abbastanza brutto. E con tanti, tanti e multicolori strascichi. Sempre pericolosi, gli strascichi. Impiegavano anni, le signorine che avevano deciso di darsi alla rivista, per imparare a incedere, a fare delle “voltate” decenti, a scendere dei gradini senza che lo strascico s’impigliasse, s’aggrovigliasse, impedisse ogni movimento necessitando quindi di entrambe le mani per sistemarlo: in mancanza di tale indefesso e indispensabile studio, l’effetto – risibile oltre misura – è appunto quello che si vede qui, oltre trent’anni dopo che la gloriosa rivista s’era estinta. Effetto, sempre restando in tema di rivista, che va di pari passo con coreografie di bruttezza assai superiore persino alla media areniana: di particolare sgradevolezza l’ostentato strascicare dei mantelli nel tempio di Vulcano. Ogni cosa, poi, ripresa in modo dozzinale, con inquadrature piatte e totalmente sganciate dal flusso narrativo, senza il minimo sospetto che in un colloquio teatrale spesso sia più importante inquadrare chi ascolta anziché star fissi su chi canta, indifferenti se per caso in quel momento sta guardando con occhi smarriti il direttore, oppure è impegnato in sforzi particolarmente evidenti.
Se la Chiara è in disarmo, Kristjan Johannsson neppure s’è armato mai: gran vocione brado rigido e duro come un sasso ma con frequenti chiocciolii per fallosa presa di fiati, non un accento che uno. Pons grida a più non posso, Ghiuselev è l’ombra di se stesso, il Re di Striuli vorrebbe gridare pure lui per adeguarsi, ma dalla gola rigida come una corazza gli escono solo suoni afonoidi e privi d’appoggio purchessia. Vocalmente, quindi, la Zajick non risulta la migliore: è semplicemente l’unica che davvero canti nel senso professionale che si dovrebbe dare al termine. Magari canta tutto forte e tutto stentoreo come sempre usava e tuttora usa, ma in tale contesto fare altrimenti avrebbe significato bizzarria: e comunque, la linea è saldissima perché poggiata sul fiato, a sua volta controllato ed emesso così da produrre suoni di opulenza e incisività in grado di reggere il confronto con quasi tutti gli esempi del passato. Guida il carrozzone Nello Santi. Che il repertorio italiano lo conosce per dritto e per rovescio, e che di solito è una sicurezza in fatto di tenuta dell’assieme e capacità di turare ogni tipo di falla turabile: questa sera, tuttavia, una quantità impressionante d’attacchi sono sporchi, molte le sfasature tra buca e palcoscenico anche in assenza del coro, e il tasso di “banda di Pignattaro” in cui si risolvono tante scene (una tra tutte, la conclusione del “Su, del Nilo il sacro suolo”) è davvero eccedente.
Elvio Giudici