Verdi – Aida

Verdi - Aida

Iiterpreti H. He, M. Berti, L. D’Intino, A. Maestri, G. Prestia
direttore Zubin Mehta
orchestra Maggio Musicale Fiorentino
regia Ferzan Ozpetek
regia video Emanuele Garofalo
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp., Cor.
dvd Arthaus 101598

In ambito artistico, il seguire una lunga consuetudine è prassi abbastanza consolidata. Si capisce quindi che il Maggio Musicale favorisca il debutto a teatro d’un regista per molti versi intrigante, capace di mescolare due culture abbastanza diverse come la turca in cui è nato e l’italiana della sua maturazione artistica, quest’ultima all’insegna di un’indagine sul problema dei rapporti di coppia – sentimentali e sessuali – che sulla carta lo rendevano senz’altro scelta stimolante per affrontare un’opera come Aida con la speranza che ne tralasciasse gli aspetti da rivista musicale con siparietti esoticheggianti.
Probabilmente, Ozpetek il problema se l’è posto: e da questo punto di vista, lo spettacolo fiorentino (ove per avventura lo si paragonasse all’ultimo scaligero di Zeffirelli, sempre incerto tra il carrozzone da strapaese e l’antica rivista con la Osiris intonante il “Nilo blu coi marabù tra i bambù”) risulta senza dubbio più composto, forse persino austero. S’è letto che Mehta avrebbe chiesto a scenografo e regista “di far sentire il deserto”. Bene, c’è da dire che Dante Ferretti non s’è certo spremuto troppo le meningi: nel deserto c’è la sabbia, e sabbia è soprattutto quanto si vede e si stravede per ogni dove dall’inizio alla fine. Proprio fino all’ultimo, anzi, dato che sul “pace t’imploro” di Amneris s’apre una botola sul tetto, e grandinano granelli di sabbia a chiudere ermeticamente la tomba come nel celebre La regina delle piramidi di Hawks: non fosse per il cospicuo rumore, è comunque un effetto, quantunque epidermico. Assieme alla sabbia, l’unico elemento in qualche modo distintivo della scenografia lo fornisce un gruppo di teste ispirate a quelle, colossali, che s’ergono sulla spianata montuosa di Nemrut Dagi, in Turchia, quali unici reperti superstiti della tomba di Antioco I Commagene, suggestiva fusione di scultura ellenistica e ittita che pare emergere a fatica dalla sabbia, un po’ come nello spettacolo di Ronconi (mai più ripreso dalla Scala, benché ben altrimenti capace di quello zeffirelliano di comunicare una grandiosità non fine a se stessa, ma provvista di pertinenti ancorché eminentemente decorativi rimandi concettuali). Veniva da pensare, di prim’acchito, a un’allusione dell’invasione ittita che mise a mal partito i Faraoni d’Egitto: invece no, il programma di sala c’informava trattarsi d’una commovente nostalgia di Ozpetek al suo paese natio. E l’amor di patria, si sa, è come quello per la mamma: s’accetta a scatola chiusa e pazienza se chiuso è anche il teatro, sostituito da pura decorazione stile cartolina zeffirellesca solo di gusto più sobrio. 
Gli interni, invece, vengono risolti con alte pareti color grigio travertino su cui spiccano le immancabili pitture bianco-marroncino di profili con occhio allungato e treccine assortite. Il tocco decadente fine Ottocento provvede poi a fornirlo un’enorme testa-montagna che domina il second’atto, coi capelli tutto un trionfo di oro azzurro e nero che pare uscito da un dipinto di Klimt: laddove i costumi di Alessandro Lai vorrebbero forse ispirarsi alle tele d’un Delacroix ma finiscono con lo strizzare molto di più l’occhio al peplum all’amatriciana, coi mantelloni e i tuniconi che strusciano, il gilet leopardato per Ramfis completo di testa e zampe ondeggianti alla sans-façon, i foulards multicolori che coprono treccioni improbabili però molto folcloristici. 
Tutto questo potrebbe anche starci, ci fosse una regia: che invece non c’è. Sostituita da diversi “imprestiti”, che andrebbero benissimo ove però fossero declinati bene e soprattutto organizzati in un quadro compiuto o quantomeno coerente anziché sbattuti là alla come viene viene.
La celebrazione della spada è un rito sanguinolento, come nello straordinario spettacolo londinese di David McVicar (ma coproduzioni intelligenti, mai?): diversamente da lui, Ozpetek non evoca però una barbarie guerresca bensì un filmaccio splatter di terz’ordine, con la carcassa sventrata dalle sacerdotesse che raccolgono il sangue molto stile uccisione del maiale in terra padana, poi se lo spargono addosso tutte giulive e infine lo offrono come ambrosia rinfrescante a Ramfis e Radames che molto gradiscono, grazie un altro po’. L’idea di McVicar d’una guerra guerreggiata con tutto quanto di orrendo la cosa comporta, in luogo del consueto défilé chic, qui si riduce a una bambina sporca di terra, scalza e stracciata, fatta vagolare imbambolata tra i guerrieri che sfilano in  pose variamente macho: e la danza vede fronteggiarsi gli egizi con foulard rosso e gli etiopi con treccine blu, impegnati in una danza tribale molto stile Stomp (piatta e banale, la coreografia di Francesco Ventriglia), con gran battere al suolo di mazze e bastoni.
Sempre il programma di sala, c’informava di un’inedita attrazione che Amneris proverebbe per Aida, in omaggio all’ambivalenza sessuale che forma una costante della cinematografia di Ozpetek. Idea né bella né brutta: dipende da come viene presentata, svolta e legata all’azione. Qui resta un’idea che si legge nel programma (“l’amore non è mai unidirezionale … l’amore, quando è forte, circola per l’aria”): in scena non c’è, sostituita dalla solita virago che incede con maestosità da destra a sinistra, si blocca, sta un po’ lì poi si gira con gran “voltata” del pesante mantellone e incede con pari maestosità da sinistra a destra, tutt’al più agitando le braccia. Che tipo d’amore l’agiti, a chi lo rivolga, e perché: niente. Così come l’affermazione di Ozpetek d’essere Amonasro un’incarnazione del Fato (idea alquanto peregrina), e Ramfis del Potere (idea alquanto ovvia), restano dichiarazioni di principio: di fatto, il primo è una montagna di carne e di voce, sparata quinci e quivi (sentiremo mai, specie da voci robuste, un “suo padre” con la semibreve semplicemente assertiva – dato che Aida ha già comunicato il fatto – anziché belluinamente comiziante e quindi tenuta all’incirca per due battute in luogo d’una sola? e si taccia, ovviamente, del solito “tu sei la schiava” in puro stile “malamente” della sceneggiata napoletana); il secondo, sta là intagliato nella roccia più delle teste di Nemrut, e un eventuale confronto con la raffigurazione del vero Potere riuscita a McVicar sarebbe del tutto impietoso.
In definitiva: regia di (modeste) intenzioni sulla carta, che nella realtà della scena è la solita non-regia tutta frontale e stile vigile urbano. E l’ennesimo regista valido di cinema, passa nel teatro musicale facendo né bene né male: non fa, e amen.
Mehta, dalla remota incisione Emi con gente come Nilsson, Corelli, Bumbry, non ha mai cambiato impostazione: puro Cecil De Mille, con bordate tonitruanti alternate a eterei svaporar di cieli cilestrini, il tutto regolato con l’aplomb di cui dà sempre prova ma anche col ground zero di fantasia o person
alità comunque riconoscibile che sempre più spesso formano ormai la sua cifra esecutiva, nella quale ogni cifra interpretativa è oggetto fattosi misterioso.
Hui He ha una grande e bella voce: sa cantare forte (e domina senza sforzo il grande concertato) ma anche piano (notevole il suo terz’atto, con un do dei “Cieli azzurri” di tutto rispetto), e la linea fluisce morbida, sicura, ben sostenuta salvo qualche occasionale smagrirsi del registro centrale e una generale idosincrasia a lavorar troppo di dinamica (un “Ritorna vincitor” piuttosto qualunque, a vero dire) che credo dipenda più dallo sforzo necessario per mantenere un repertorio tanto oneroso che da reali deficienze tecniche. Tutto bene, dunque: salvo il fatto che la sua Aida è la solita Aidona, con tutti gli accenti fatti cadere là dove l’immarcescibile tradizione li prescrive, coi colori circoscritti a un paio buoni per tutti gli usi, simbiosi totale tra gesto e fraseggio all’insegna dell’assenza dell’uno come dell’altro.
Luciana D’Intino è la grande professionista vocale che sempre è stata, ma ormai da tanto tempo: che nulla ha apportato in termini di personalità teatrale, e parecchio fatto perdere quanto a smalto e soprattutto continuità d’una linea nel cui registro centrale, molto spingendo e sempre meno sostenendo, il classico “buco” di chi usa e abusa del petto va facendosi davvero troppo avvertibile, come impietosamente dimostra la seconda parte del duetto con Aida, nel quale il “del tuo destino arbitra sono” bordeggia il grottesco. Peggio che mai per Radames. Solito tenorone che spara note molto più grosse che squillanti; non fa un piano che uno (quando sembra farli, viene in mente lo psicologo di Wilder nel sublime Prima pagina: “sssiimula…”);  ignora non solo che nel fraseggio esiste il variare della dinamica, ma proprio che esiste un fraseggio; attacca le note da sotto; fa portamentoni da antica provincia; si strangola nel passaggio superiore perché spinge maledettamente di gola.
Maestri è sempre Maestri: una delle più ragguardevoli voci baritonali dell’ultimo ventennio (con ogni probabilità la più ragguardevole, anzi, in termini di ampiezza, solidità, colore), che come spesso capita è troppo paga di se stessa e degli effetti più epidermici che è in grado di produrre – e che, va detto, tantissimo piacciono alla stragrande maggioranza di chi l’ascolta – per preoccuparsi di dare una fisionomia di Amonasro diversa dal consueto energumeno tinto di nerofumo e con gli occhi perennemente fuori dalle orbite per far pendant col ghigno belluino. S’ha presente il sublime Cesare Pascarella della Scoperta dell’America? “Veddero un fregno buffo co’ la testa / Dipinta come fosse un giocarello, / Vestito mezzo ignudo, co’ ‘na cresta / Tutta formata de penne d’ucello. / Ah, quell’omo! – je fecero – chi sête? / Eh – fece – chi ho da esse’? so’ un servaggio”. Ecco: l’Amonasro che di tanto più piace in quanto più “un servaggio” nel gesto e nella voce, e che ha tenuto banco si può dire da sempre; in tale contesto, Maestri non è nemmeno tra i peggiori.

elvio giudici


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306 Novembre 2024
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