Verdi – Don Carlo

interpreti J. Kaufmann, A. Harteros, M. Salminen, T. Hampson, E. Semenchuk, E. Halfvarson
direttore Antonio Pappano
orchestra Wiener Philharmonic
regia Peter Stein
regia video Agnes Méth
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.,Cor.,Cin.
2 dvd Sony 88843005769
prezzo € 22,60

Verdi-Don-Carlo

Terza volta di Pappano in video: un bel record e una direzione molto migliore delle precedenti di Parigi e Londra. Molto più morbida e soffusa di chiaroscuri, questa sua orchestra: che racconta molto, ma ancor più cerca di mettere a nudo i complessi grovigli psicologici dei suoi personaggi, il canto dei quali è suggerito, accompagnato, sostenuto e insomma valorizzato in modo eccezionale. Circa l’edizione, Pappano continua a non ritenere sufficientemente valida nessuna delle tre di Verdi, e quindi ne costruisce una propria. Stavolta il taglia e cuci è un po’ più contenuto, ma proprio perciò le ragioni su cui si basa sono se possibile ancora più oscure. L’edizione di base è quella di Modena, ma con l’aggiunta del coro iniziale dei boscaioli (indispensabile: è tra i brani ritrovati negli anni Settanta), dello scambio di mantelli tra Elisabetta ed Eboli, della trenodia sul cadavere di Rodrigo (noto ormai tra gli appassionati come “il Lacrimosa”, essendo stato com’è noto espunto da Verdi e riutilizzato nel Requiem appunto per la sezione del Lacrimosa). Però.
Però, Rodrigo incontra Carlo a San Giusto con le prime frasi dell’edizione di Parigi: dicono qualcosa di più sull’azione o sul carattere? Non mi pare: tre frasi buttate là, che allungano il brodo e basta. Stessa cosa all’irruzione del popolo nel carcere di Rodrigo. Finito il Lacrimosa (per inciso, diretto proprio niente bene, con una scansione ritmica asfissiante che alle duine puntate del coro dà una tinta vagamente grottesca alquanto bizzarra), suona la campana a stormo e la folla irrompe a Milano, però Filippo le risponde da Parigi – ma senza che compaiano né Lerma né Elisabetta né Eboli, quindi non se ne vede proprio la ragione – con la sola e unica frase “Ebben, perché tardar? A ferir v’affrettate” che su Filippo non dice assolutamente niente di nuovo, però lo costringe a salire a un fa acuto che fa penare parecchio Salminen – e di più noi che lo s’ascolta – per poi riportarlo precipitosamente a Milano dove c’è l’Inquisitore: il quale chissà perché non canta assieme a Filippo il conclusivo “Gran Dio sia gloria a te”. Per la chiusa dell’opera, infine, dopo l’intervento del Frate Elisabetta lancia il si acuto però dovrebbe essere invece un prescritto la, essendo di colpo a Parigi, col coro che rassicura l’essere Carlo ben morto e quindi hanno avuto tutti una visione giacché “polve e cenere sol è”. C’è inoltre da dire che il duetto conclusivo tra Elisabetta e Carlo è quello di Milano, ma con l’agogica ricalcata sull’Andante assai sostenuto di Parigi (60 alla semiminima), dov’è sparsa a pioggia la prescrizione a cantare il più piano e sfumato possibile, in un tempo che richiede barili suppletivi di fiato (che a onor del vero Kaufmann e la Harteros mostrano di avere, con un risultato superbo).
C’è da esser grati ci sia stata stavolta risparmiata da Pappano l’orrenda edizione confezionata a Parigi nonché l’obbrobrio dell’autodafè londinese col monaco pazzo che urlacchia tra gli eretici: ma sarebbe interessante un suo intervento esplicativo in merito a queste stranezze senza alcun costrutto né drammaturgico né musicale.
Lo spettacolo di Stein è molto peggio che brutto: banale e all’insegna del fotoromanzo sentimentalone. Scena spoglia, che va benissimo: ma gestualità esagitata (Elisabetta che nel quint’atto s’aggrappa alla grata del monumento tombale come la Bertini alle care vecchie tende, e prima si produce in girotondi a braccia tese!), gran cascare per terra, molto accasciarsi su sedie isolate alla parete, le dame di Eboli che sguazzano in una pozza d’acqua verdastra tirandosi su le gonne come le sigaraie di Carmen: hanno sparato a zero sulla regia scaligera di Braunschwig che pare sarà sostituita da questa, e sarà perdita secca.
Il cast raduna forse il meglio che c’è oggi, ma è un meglio eterogeneo, con nessuno che canti all’italiana. Non dico sia necessariamente pecca insopportabile: certo però che a orecchie italiane suona estraneo il modo di fraseggiare sia di Salminen sia di Hampson sia della Harteros. Gran senso della parola e presenza carismatica per tutti e tre, senza dubbio. Ma il legato cui siamo adusi è tutt’altro; certo bordeggiare il parlato ci dà fastidio, e ancor più i suonacci aperti della Harteros in basso (per non  dire di certi si naturali da fischietto di marina; e quanti gradini e stridori, nel “Non pianger mia compagna”!); le tremende doppie di Hampson che sono almeno quintuple in aggiunta a slabbrature vistose d’una linea molto indurita; la difficoltà di Salminen nel legare o peggio che mai ammorbidire i suoni che restano sempre aspri e tendenzialmente gutturali: sarà l’economia globale del canto, bellezza, ma in questo campo la mia età mi fa restare autarchico.
La Semenchuk è più in regola, ma gli acuti sono striduli e l’uguaglianza della linea un’utopia, oltre ad essere quella che recita peggio di tutti. L’Inquisitore di Halfvarson urla e sbraca da paura, il Frate di Robert Lloyd è qualcosa al di là dell’umana decenza. E Kaufmann elargisce carisma a pacchi nonostante la regia lo costringa a un ipercinetismo da schizzato dei fumetti (quel suo “dirigere” il coro dei fiamminghi!), emette pianissimi fascinosi nonostante certa percettibile gutturalità, spara un si naturale di tutto rispetto: c’è però un che di forzato, di manierato se non proprio cincischiato, che mi convince poco. È senz’altro Carlo: però non è il mio Carlo.
Elvio Giudici

 

 

 


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306 Novembre 2024
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