interpreti N. Dessay, C. Castronovo, L. Tézier
direttore Louis Langrée
orchestra London Symphony
regia Jean-François Sivadier
regia video Don Kent
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
dvd Virgin 7307989
La mia prima Traviata (nonché mio battesimo al teatro musicale) la vidi a dieci anni, nel celebre spettacolo scaligero Giulini-Visconti-Callas: lo spettacolo parrebbe oggi datatissimo senz’altro, ma voce attuale invece più che mai. In mezzo, tra dischi teatri e video, m’è capitato di ascoltare tante di quelle Violette da aver perso il conto. Quante sono rimaste indelebili nella memoria? E soprattutto: quante vale ancora la pena ricordarle oggi? Ecco, questo è già più difficile a dirsi dovendone anche fornire delle ragioni che possibilmente esulino dal gusto soggettivo, sempre sacrosanto ma di rado oggettivabile. Credo però che la considerazione prioritaria sia quella avanzabile più in generale a proposito del modo che il nostro presente ha di raccontare il melodramma. Quando il dato esclusivamente vocale – inteso come produzione del suono – va sempre più di pari passo con quello del colore fatto assumere a quel suono, della sua consistenza, di come e quanto esso muti in seno alla frase, di come le frasi si susseguano le une alle altre: e quando tutto questo sempre più fa una cosa sola col dato scenico, cioè a dire con la capacità di recitare in seno a produzioni che intendono posizionarsi criticamente nei confronti di testo e musica, tanto destrutturandolo (ma allora occorre poi ristrutturarlo, altrimenti son solo sofismi) quanto – meglio sempre, ma essenziale oggi – rileggendolo salvaguardandone le linee narrative che contano. In parole povere, l’opera sempre più intesa quale teatro. E vale la pena ribadire che non si tratta d’una battaglia in corso, con relativa eventuale chiamata alle armi per difendere il fortino sempre più sguarnito costituito dalla soffitta dove s’ammassa la veterolirica cara alle care salme: è battaglia già ampiamente conclusa. Le sacche di resistenza vanno sgretolandosi una dopo l’altra, man mano che sempre maggiore successo incontrano produzioni create da artisti – registi e cantanti – capaci di cavalcare questo rinnovamento dandogli pieno senso. Teatrale, appunto. Che agisce, è chiaro, in misura direttamente proporzionale al tasso di teatralità posseduto dagli autori, oppure – è il caso dell’opera barocca – alle straordinarie rispondenze che un certo repertorio mostra con l’odierno gusto figurativo-rappresentativo ma anche musicale (indagare certe assonanze del pop col contrappunto e il basso continuo barocco, sarebbe materia di studio interessantissima).
Violette cantate benino: tantissime. Bene: parecchie. Benissimo: qualcuna. All’epoca del famoso spettacolo scaligero, non erano certo poche le voci critiche nei confronti della Violetta di Maria Callas, cui venivano contrapposte tutta una schiera di elette cantatrici di voce ben altrimenti angelica e linea ben più concretamente sontuosa. Sicché anche allora, stringi stringi la questione finiva col giocarsi sul doppio fronte dell’accento vocale e del gesto scenico. Negli anni Dieci, la questione si ripropone pari pari: con l’ovvia differenza fornita dall’inevitabile mutamento di gusto e sensibilità in merito a cosa debba intendersi per mezzi autenticamente espressivi. Consonanza figura-ruolo, oppure no? Gesto moderno sempre e comunque, o va bene il solito campionario di pose strategiche pur che ci sia la voce, la voce, la voce? Mi bemolle (non scritto) o morte, oppure chissene? Si può continuare per un pezzo. Ma quando va in scena una Traviata come quella montata ad Aix-en-Provence nell’estate del 2011, sono nodi che arrivano tutti al pettine, e occorre per forza prendere posizione.
Perché protagonista ne è Natalie Dessay.
Dai recinti delle specie protette della lirica che fu, solo a pronunciare certi nomi (Bartoli, Keenlyside, Kaufmann, Netrebko) provengono barriti inconsulti all’insegna del consueto cantavano bene solo i morti, oggi è la desolazione postatomica: ma tra i detti nomi, quello della Dessay è nella pattuglia di testa. E oggi, potrebbero pure vantare pezze d’appoggio. Vero – come ho già avuto modo di dire a proposito del recital dedicato all’händeliana Cleopatra – che la voce di Natalie sia ora più arida; gessosa in certi repentini involi verso l’alto; più avara d’armonici nel medium; inquinata da sparse stridulità nel registro acuto una volta tanto squillante. Però la sua Violetta è, per mio conto e per quanto vale, quella che più mi ha emozionato a partire dalla serata scaligera di mezzo secolo fa: quasi a chiusura d’un cerchio ideale che però, il teatro essendo quello che è, significa certamente – anatema per i custodi del cimitero degli elefanti, benedizione per chi a teatro oggi ci continua ad andare per vedere personaggi di oggi – l’inizio d’un nuovo ciclo.
Ci s’aspettava pirotecnie da fuochi d’artificio al prim’atto, e progressiva ritirata in buon’ordine nei successivi. Invece no, avrebbe equivalso a una rinuncia al dato teatrale: cosa inconcepibile, per artista di tal fatta. Niente di riprovevole, dunque, all’inizio (linea sottile ma flessibilissima nel flettersi in una nervosità febbricitante tutta sorrisi tirati verso la smorfia dolorosa), ma neppure di trascendentale. E in scena, la regia di Jean-François Sivadier mostra un gran direttore d’attori che imposta uno spettacolo in divenire, teatro nel teatro con gli attori coinvolti nella recita che diventa progressivamente realtà e via secondo un antico copione, anch’esso non riprovevole – anche perché fatto molto bene – ma anche niente di che nella sua sostanza. Col supporto della direzione piuttosto buona (peccato solo tutti i soliti tagli da veterolirica) di Louis Langrée alla testa dell’eccellente London Symphony adesso in forza fissa al festival; dell’Alfredo di Charles Castronovo, che pena un po’ lassù ma riesce molto espressivo recitando per giunta molto bene; del Germont di Ludovic Tézier, fiore all’occhiello dei francesi che personalmente trovo ruvido, sgarbato, duro come un sasso e inespressivo del pari.
Il second’atto, ambientandosi in Provenza, vien fatto svolgere davanti a grandi – e splendide – tele impressionistiche, in una pressoché totale nudità d’oggettistica. E appena rientra, questa Violetta è letteralmente un’altra. Più matura, infinitamente più vulnerabile. La linea vocale s’assottiglia in fili evanescenti eppure luminosissimi, pieni di luce, intrisi di disperazione via via più impotente, lacrime e sorrisi inzuppano un “Dite alla giovane” lacerante, una cupezza quasi rauca serpeggia in un “Morrò, la mia memoria” che nel sussurro urla di rabbia e la maschera tragica da cui proviene sembra dipinta da Munch. Nella festa da Flora, l’attacco immateriale eppure di squassante intensità di “Alfredo Alfredo” è qualcosa di cui sinceramente non avevo memoria. Ma ancora poco per quello che succede al terz’atto.
Al termine della festa, Violetta resta al proscenio, riversa. Nel silenzio più assoluto, lentissima, si mette seduta. Sempre lentissima, e sempre nel silenzio, si toglie prima uno stivale, poi l’altro: e infine si tira pesantemente su. Resta immobile a lungo, poi – e qui principia il preludio – comincia a fare qualc
he passo barcollante verso Annina che è comparsa sulla sinistra (a proposito: è Adelina Scarabelli, quasi irriconoscibile nella sua opulenza rispetto al grissino che era, ma d’una bravura scenica da reggere il confronto con questra Violetta. Inutile aggiungere altro), e che l’accoglie tra le braccia. Restano immobili entrambe. Poi, piano piano, lei si toglie la grande parrucca bionda tutta ricci. Si siede su una delle tre sedie che stanno al proscenio, e Annina comincia a levarle il trucco dalla faccia. E lei è vecchia. Vecchia: gli occhi immobili e fissi, da cui scendono due lacrime mentre la bocca si piega non sai se in un sorriso o una smorfia, appoggiata sullo schienale, i capelli corti appiccicati alla nuca, gli occhi spaventosamente fissi in avanti. Vecchia. Ma come ha fatto? Perché non è questione di truccatura particolare o di make up: è proprio tutta la figura, che emana vecchiaia, disfacimento, senso di morte. Alita “Annina?”: e c’è già tutto, tre note riassumono l’intero momento e preparano il prosieguo. “Religïon è sollievo ai sofferenti”: Annina si fa il segno della croce, ma lei sorride con un’incredulità amara che ti divide il cuore in due. “Addio del passato” diventa una delle pietre miliari del teatro moderno, fin dalla lettera scorsa con gli occhiali da vista in mano, la voce che compita lenta, lentissima, quasi fosse incapace di distinguere le cifre, quasi da chi non sappia più neppure leggere. E quel filo di voce tesissimo: una lama di coltello nel silenzio della notte, appeso nell’aria, dolce e straziante, che s’ispessisce e subito trascolora, espandendosi in un volo smozzicato, come facendosi largo tra ricordi amari evocatile dal vestito azzurro dell’inizio che stringe e butta via, verso quella “croce” e quella “fossa” che realmente prendono corpo attorno a lei. E quando invita Alfredo a “prendere l’immagine dei suoi passati giorni”, sollevandogli una mano tra le sue e passandosela lungo tutto il viso, sfilandosi poi un anello e dandoglielo perché “porga quest’effigie” alla pudica vergine che sposerà, mentre la voce si carica di struggimento delicato, sorridente, già lontanissimo: se nel pubblico c’è un ragazzino di dieci anni che guarda, sicuro come l’oro che riceve una folgorazione tipo caduta da cavallo di San Paolo. È così che il teatro va avanti. E chissene, dei vecchi arnesi sfrigolanti da mettere sul fonografo a tromba tra turibolar d’incensi muffiti.
elvio giudici