Verdi Les – Vêpres siciliennes

interpreti B. Hymel, L. Haroutounian, M. Schrott, E. Schrott
direttore Antonio Pappano
orchestra Covent Garden
regia Stephan Herheim
regia video Rhodri Huw
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
2dvd Opus Arte 64349 
prezzo 20,60

 

Les-Vepres-siciliennes

Ottiche opposte di comunicazione col pubblico, quelle di Metropolitan e Covent Garden. Nel mettere in scena un titolo ancora inedito quantunque di autore notissimo, il primo sceglie la massima chiarezza narrativa (il Donizetti “Tudor” affidato a David McVicar), il secondo una drammaturgia terremotata così come costumano i registi nordici. Terremoto massimamente interlocutorio, peraltro. Anche perché l’abituale scabrosità nel mettere in scena il divagante carrozzone del grand-opéra targato Scribe è accentuata dall’esserne stavolta Verdi il compositore: la cui serrata logica sul doppio fronte narrativo e psicologico rende parecchio rischioso l’intervenirvi a gamba tesa.
Epoca: l’Ottocento francese del Secondo Impero, contemporaneo alla scrittura. Ambientazione: un teatro d’opera, anzi quell’Opéra che al balletto riserva particolare attenzione. Sinfonia deputata a presentare l’antefatto: il mâitre de ballet Procida sta preparando un pezzo con le ballerine alla sbarra, distratto dalle notizie preoccupanti lette sul giornale; arrivano militari francesi, che rivolgono pesanti attenzioni alle fanciulle e azzoppano Procida; giunge Montfort, il quale violenta la prima ballerina, che vediamo poi sdoppiarsi in donna incinta e madre di pargolo, successivamente mutato in adolescente e infine in un Henri adulto che sorregge la madre morente che punta il dito contro Montfort maledicendolo. Un gran pezzo di teatro, ogni gesto o passo di danza calibrato alla perfezione sul diverso andamento musicale. Poi? Si ricama, spesso si cincischia, sovente si ricorre al sogno che è sempre comodo per tentare di far quadrare i conti narrativi, che tuttavia Verdi rende troppo prepotenti. La scena è sempre da teatro nel teatro (un capolavoro tecnico, tre ordini di palchi affollati che ruotano e scorrono senza il minimo rumore), nel quale domina un invadentissimo corpo di ballo (tranne là dove sarebbe deputato, il Ballo delle Stagioni, omesso), a fungere da controcanto al confrontarsi dei personaggi, cui prova a fornire un costante background, per così dire: riuscendo solo a essere assai molesto, come nel sublime duetto Henri-Montfort, circondati sia da Henri bambino con in testa un teschio, e sia da piroettanti tutù quale bianco e quale nero, come il binomio amore e odio, realtà e sua rappresentazione, dunque in definitiva vita e arte. O anche no: solo un “famolo strano” contro il famolo chiaro.
Uno strano che spesso trapassa nel comico involontario, cui nove volte su dieci cadono i registi nordici allorché affrontano il robusto narrare del melodramma italiano. Hélène compare al prim’atto recando in braccio la testa mummificata del fratello, che le cade e allora Montfort ci gioca a pallone spedendola verso i palchi con gran divertimento degli astanti. Nel carcere, volteggia il putto che avevamo visto quale Henri bimbo e adesso indossa teschio e alucce candide, roteando una bipenne più alta di lui: e alla conclusione, allorché Montfort fa grazia, i francesi nei palchi esplodono in un applauso stappando bottiglie e deridendo il puttino che mostra loro il pugno. All’ultimo atto, spettatori (francesi) e attori (siciliani) sfilano assieme in costumi assortiti, comprensivi di tutù candido sopra un’uniforme (e il puttino ha dismesso teschio e bipenne per suonare una lira dorata): ma all’attacco del Trio, Procida compare travestito da gran dama, in nero, con generosissima scollatura e teschio in capo (una gaffe, da parte di Herheim, citare proprio a Londra il McVicar del Faust, dove Terfel-Mefistofele amministrava la notte di Valpurgis in tenuta analoga), e durante i due pannelli del grande Ensemble in cui detto Trio sfocia, afferra una bandiera francese e con l’asta ammazza siciliani e francesi ricomparsi non si sa perché dato che non cantano. E difatti: è un sogno di Hélène, avvolto in debita luce rossastra. Grandissima abilità tecnica, drammaturgia molto cerebrale, niente comunicativa, dunque ben poco verdiana.
Giusto il contrario, per fortuna, di quanto fa Pappano, cui va prima di tutto il merito d’aver optato per la sacrosanta versione francese, orridamente sfigurata da una delle peggiori traduzioni dell’intero repertorio. Splendida direzione, la sua. Capace di coniugare impeto e ripiegamento, sfumatissima, vibrante solo là dove serve, attenta a valorizzare l’evidente impegno strumentale ma senza star lì a sottolinearlo troppo e inserendolo invece in una narrazione sempre tesa, che incalza ma non asfissia, che sa abbandonarsi al canto spiegato procurando però di non spampanarlo.
Cast formato tutto da eccellenti attori, e dominato da Bryan Hymel: che risolve assai bene la spinosissima tessitura di Henri. Ottimo legato e bella morbidezza nei molti passi elegiaci; vibrante declamato negli ancor più frequenti brani al calor bianco dove il ritmo incalzante rende ostici gli scarti all’acuto (i due pestiferi si naturali della sublime aria del quart’atto sono una meraviglia); ovunque, un’attenzione alla parola cui donare colore e accento i più appropriati, ivi compresa l’aria dell’ultimo atto col suo andamento dolcissimo e cullante concluso con uno svolazzo al sovracuto di tinta francese che di più non si può.
Lianna Haroutounian ha il grande merito d’essere subentrata alla prevista Poplavskaia, pessimo prezzemolino sparso su troppe nuove e importanti produzioni dell’ultimo lustro, la cui totale imperizia tecnica pare abbia sacrosantamente fatto sparire. La voce è bella, canta molto bene, con ottimi gusto e stile, né manca di fraseggio animoso: ma la scrittura sovrasta troppo la sua caratura di lirico quasi leggero. Michael Volle è come sempre attore eccelso, eccellente fraseggiatore e cantante di robusta caratura, però gli manca quel tipico abbandono nei brani elegiaci, quella morbidezza nell’inflettere e colorire le frasi patetiche, dove il frequente scantonare nel declamato pare decisamente fuori stile (al riguardo, è spia impietosa la pacchiana sberla che questo Montfort affibbia a Henri al loro duetto: vocale ancor più che scenica). Procida sarebbe basso-basso, e Schrott è troppo basso-baritono alle prese con una scrittura dove gli arrembaggi all’acuto sono troppo pochi rispetto alle esigenze di voce ampia e timbrata al centro e in basso: è sempre un grande attore, ma come sempre lo sa facendo quinci e quivi parecchia ruota, quantunque innegabile sia l’autenticità del carisma. Alterne le parti di fianco, ottimo il coro, eccellente l’orchestra ed eccellentissima la ripresa video.
Elvio Giudici

 


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