interpreti S. Keenlyside, L. Monastyrska, R. Aceto, D. Pittas direttore Antonio Pappano orchestra teatro Covent Garden regia Phyllida Lloyd regia video Sue Judd formato 16:9 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp. dvd Opus Arte 1063
Pyllida Lloyd è tra i protagonisti della scena teatrale inglese, firmataria di regie giustamente molto famose: Macbeth (già presente in video in occasione della sua ripresa a Barcellona) rientra un po’ di sguincio in tale categoria. Spettacolo molto decorativo, centrato sull’idea che le streghe – ovvero il destino – muovono l’intera vicenda, i suoi protagonisti ridotti a prevedibili e predestinate marionette. Personalmente non sono granché convinto di tale ottica interpretativa, sia essa riferita a Shakespeare o a Verdi: bello però l’impianto, professionalissimo l’impiego dello spazio scenico, non male talune soluzioni più specificamente registiche, tutte filmate con acuta sensibilità teatrale da Sue Judd nel corso della ripresa dello spettacolo nel luogo dov’era nato, esattamente dieci anni fa (che si vedono tutti).
Pappano stacca una direzione avvolgente, piena di tensione, ricca di colori, con perfetto sostegno al canto: ma se racconta benissimo gli accadimenti, meno bene ne spiega le ragioni che li motivano, restando un po’ in superficie per ciò che concerne definizione e soprattutto evoluzione psicologica, deputata quasi per intero alla singola iniziativa. Massima nel caso del protagonista, minima in quella della di lui consorte, alterna nel resto del cast. Spettacolo, quindi, che trova la sua ragion d’essere teatrale e ancor più video in quanto documenta la presa di possesso d’un personaggio tanto gigantesco da parte d’uno dei più portentosi artisti della scena teatrale contemporanea: e difatti, Simon Keenlyside è a mio avviso un Macbeth di statura storica. Non tanto per la voce in sé: ma per come teatralmente la impiega.
Non c’è parola o sillaba che non riceva un colore, un’inflessione, un senso; e non una sola frase priva d’un suo climax espressivo dato dalla situazione o da un particolare snodo psicologico che tale situazione ha determinato o sta determinando. Ma senza che ci sia il minimo sospetto di cincischiato manierismo, e senza che nessuno degli infiniti accenti vocali non trovi esatto corrispettivo in un movimento o meglio ancora in una mancanza di movimento; al riguardo, certi repentini immobilizzarsi, tenuti in tensione oppure rilasciati come se ogni energia si drenasse dal corpo, sono cose che fanno pensare di continuo a un Olivier: però più moderno. Timbro vocale non di particolare bellezza, questo di Keenlyside, e neppure dotato di strapoteri forniti da ampiezza o estensione. Ma reso molto più che bello: interessante, dalla portentosa ricchezza espressiva che lo anima e che un’ottima tecnica fa fluire morbido, omogeneo, lungo una linea vocale dove il magnifico legato non ha traccia alcuna di monotonia ma sa inflettere la parola mantenendola sempre all’interno del suo alveo. Esempio paradigmatico di declamato vocale ad altissimo voltaggio melodico: per l’appunto una delle peculiarità che pongono Macbeth tra le vette del gran teatro verdiano (e che, per inciso, spiegano il tardivo suo collocarsi tra i riconosciuti capolavori), ma anche che lo rendono una delle maggiori sfide poste ai suoi interpreti.
Già la prima scena con le streghe e con Banco fa ascoltare, sottotraccia a un canto che cerca di dispiegarsi con disinvoltura, brividi appena accennati (quel leggerissimo tremolio delle e di “ah perché sento”), respinti ma subito riemergenti sotto all’asserzione marcata, voluta a tutti i costi, di “non alzerò”. Un monologo del pugnale tutto ravvoltolato su se stesso, una mezzavoce carica di tensione sempre più spasmodica. Un duetto che fa vedere anche nella voce quegli occhi sbarrati ma anche quella gioia che via via emerge tra le pieghe dell’ansia, in una sintesi suono-gesto che è esempio tra i massimi del teatro musicale moderno. Come lo è la scena del banchetto, naturalmente ( “il velame del futuro alle streghe, alle streghe squarcerò”: cosa riesce ad esserci, in quella frase sbarrata, sibilante di terrore ma anche di rabbia!), nonché quella delle apparizioni. Che è pervasa da una gioia quasi satanica eppure ovunque controllatissima, introversa, murata in un’implacabilità sempre più dolorosa che pare sciogliere il proprio grumo di amara solitudine in uno dei più bei “Pietà, rispetto, amore” degli ultimi decenni: affidato a un legato morbido, fluido, in cui si scioglie una gamma inesauribile di tonalità grigie e spente, d’intensità espressiva direttamente proporzionale all’asciutta mancanza d’ogni facile effettismo.
Quest’edizione ripristina l’aria “Mal per me” che sigla la morte di Macbeth. Decisione sempre controversa, che a mio avviso deve tuttavia tener conto di diversi fattori: a) è aria bellissima; b) trova posto con estrema logica nel quadro della scena finale; c) non esclude affatto, come taluno sostiene, ma anzi prepara magnificamente, la fuga finale; d) ha un testo capace di rendere – con pregnanza direttamente proporzionale all’estrema sintesi – il significato di quel Grande Meccanismo che per Shakespeare è la storia dei potenti; e) in ultimo, ma non certo ultima ragione per impiegarla, offre un grandissimo materiale per un grande artista. E artista, Keenlyside lo è: capace di rendere questo brano esempio vertiginoso di parola cantata (un canto morbido, pieno, ben timbrato) e allo stesso tempo declamata, cioè a dire “parola scenica” nel senso più verdiano che essa possa avere.
Lyudmila Monastyrska, soprano ucraino giunta sui palcoscenici occidentali dopo non pochi (ma sempre provvidenziali per il futuro) anni di gavetta a Kiev e a San Pietroburgo, sfoggia voce di singolare estensione e spessore, dallo splendido colore bruno, governata da tecnica eccellente che le permette di sostenere una linea ampia, morbida, duttile a ogni sollecitazione dinamica, in grado persino di affrontare i passi di coloratura del brindisi senza problemi quantunque anche senza stile (tutte le note picchiettate sono “staccate” anziché “staccate-legate” come invece dovrebbero e come d’altronde sono scritte, onde scansare l’effetto martello pneumatico che difatti qui s’ascolta). Un materiale d’oro, insomma. Che resta là, pago di se stesso: l’inerzia espressiva ingigantita ulteriormente dalla sfortuna (sua) dell’avere accanto un Keenlyside.
L’aria di sortita riverbera sulle sue prime frasi l’effetto sgradevole dell’accento slavissimo con cui legge la lettera (ci si ricorda allora della saggezza di alcuni registi che la fanno dire dalla voce di colui che l’ha scritta: e questo Macbeth l’avrebbe di certo declamata splendidamente), ma il prosieguo sciorina note che impressionano però mai emozionano. Nel duetto, Lady contrappone proprio poco, all’infuori d’un gran volume di voce, alle stilettate d’ansia che screziano di continuo – e con colore sempre diverso – il fraseggio di Macbeth. Una “luce langue” piatta come una tavola (e dove persino il legato, in zona medio-grave, tende a sdrucirsi), preludio a un brindisi scalpellato con sovrana indifferenza. E il sonnambulismo si chiude con uno spettacoloso re bemolle in pianissimo, smorzato in modo ancor più spettacoloso: ma al termine d’una teoria di frasi tanto ben emesse e di magnifico colore, quanto uniformi e dinamicamente piatte. Ma soprattutto, se singolarmente inerte è l’interprete (aggravata da un idioma burgundo costruito su due vocali solamente e nell’assenza pressoché totale d’ogni consonante), l’attrice proprio non esiste: e nell’uno come nell’altro problema, funge da tremenda cartina al tornasole la vicinanza con un Keenlyside da Oscar subito. Resta la cantante: molto prossima ad essere definibile come sensazionale, una volta sarebbe potuto bastare e suscitare grande emozione. Per quanto mi concerne (parere del tutto soggettivo, com’è ovvio: le emozioni debbono esserlo sempre, per definizione), oggi quando vado a teatro la nota di per se stessa posso apprezzarla per una decina di minuti – in un’opera come questa, però, anche molto meno – ma poi, in mancanza d’alcunché d’altro, m’annoio.
Dimitri Pittas canta l’aria di Macduff senza un accento che uno causa i molti problemi nel tenere compatta l’emissione e proiettare un suono ribelle oltre quella gola in cui tende a bloccarsi. Aceto è un Banco gutturale, anche lui bisognoso di continue spinte di gola per produrre una qualche parvenza di linea vocale, naturalmente frammentata e disuguale. Piuttosto buono il coro (un eccellente “Patria oppressa”, che Pappano dirige splendidamente) e non male le parti di fianco: quello e queste recitando poi nella maniera superba che sempre costuma su un palcoscenico britannico.
elvio giudici