interpreti J. Kaufmann, M. Agresta, M. Vratogna, F. Antoun, I.S. Sim, K. Ruutel direttore Antonio Pappano orchestra Covent Garden regia Keith Warner regia video Jonathan Haswell sottotitoli it., ing., ted., fr. 2 dvd Sony 88985491959 prezzo 22,60
Tredici anni possono essere molti o pochi, nel teatro musicale: nel caso di Jonas Kaufmann, rappresentano il relativamente breve arco di tempo durante il quale, dal cantare Cassio nell’Otello parigino del 2004 (diretto da James Conlon con protagonista Vladimir Galusin), è dapprima diventato il tenore più corteggiato del mondo per scalare infine quello che molti considerano l’Everest tenorile, il personaggio di Otello. Vincendo alla grande, secondo me, una sfida particolarmente impegnativa considerato il dispendio nervoso provocato da un’aspettativa senz’altro abnorme. Questo era già evidente nella trasmissione nei cinema d’una delle prime recite: ancor più s’impone nel video ufficiale, senz’altro frutto d’un giudizioso mix di diverse riprese organizzate da Jonathan Haswell in un montaggio sotto ogni aspetto esemplare.
Kaufmann plasma un Otello in tutto e per tutto personalissimo, privo di qualunque influenza che del ruolo possano aver suggerito i suoi interpreti più reputati del dopoguerra, da Vinay a Del Monaco, da Vickers a Domingo. Personale il timbro, più che mai fascinoso nelle scure bruniture che screziano una linea solida, omogenea a tutte le quote e intensità, che un controllo formidabile dell’emissione mantiene sempre morbida lungo quelle amplissime escursioni dinamiche che sono il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Una voce scura capace d’assottigliarsi in piani e pianissimi “soffiati” fino all’inverosimile, ma i cui contrasti con cantabili ampi e timbratissimi (e soprattutto sempre “cantati”, mai che i passi declamati scantonino nel parlato), con legati di compattezza e fluidità assolute, scandiscono altrettante tappe d’un processo psicologico di estrema e avvincente logica teatrale. Un Otello molto poco eroico, niente “titanico oricalco” (quantunque l’Esultate sprigioni tutta l’energia necessaria, coi due la naturali che non saranno colate di bronzo ma sono fermi e robusti), piuttosto un uomo forte nella sua vita pubblica ma fragile in quella privata: quasi un epigono di certi tormentati personaggi della letteratura romantica. Innumerevoli i passi memorabili dell’interpretazione di Kaufmann, ciascuno meritevole di studio: il duetto d’amore, ovviamente; la tormentosa, lancinante progressione psicologica del second’atto; un terz’atto da brivido; apice assoluto, un finale d’opera che da oggi sarà ineludibile punto di riferimento.
I giorni nostri, per varie ragioni tutte contestabili ma purtuttavia ormai ineludibili, non consentono più prese di possesso di ruoli dalla lunghezza comparabile a quella del passato, esempio massimo i trent’anni di Domingo-Otello. Augurabile, tuttavia, che simile debutto in un ruolo simile non resti confinato a questo spettacolo e a quello programmato per novembre prossimo a Monaco (con Petrenko, Harteros e Finley): il teatro verdiano ne soffrirebbe a mio avviso parecchio.
Maria Agresta è un’ottima Desdemona. Splendido il registro centrale della sua voce, valorizzato da un’emissione solida e ben proiettata; acuti qua e là un filo tirati (il solito scoglio costituito dal duetto del terz’atto) e gravi appena un po’ carenti di corpo: ma fraseggio molto curato entro una linea luminosa, morbida, fluida e omogenea, che se nell’ultimo atto trova il suo punto di forza è comunque sempre rifinito e interessante. Marco Vratogna sostituì all’ultimo il previsto Ludovic Tézier: secca perdita, non c’è dubbio, sul fronte vocale. Ruvido il timbro, sconnessa spesso la linea vocale con eccedenti sconfinamenti nel parlato, profluvio di sgradevoli aspirate nel Brindisi: l’ottima dizione, però, di conserva al notevole senso del teatro e a un lodevolissimo scansare ogni birignao da bieco infame d’infausta tradizione, gli consente fraseggio non risaputo, belle intuizioni d’accento, in generale un chiaroscuro espressivo notevole, comunque in grado di reggere senza troppo scapitarne l’arduo confronto con Kaufmann.
Tutto il cast (che si giova di parti minori ben scelte, nonché d’un ottimo coro sotto la guida del suo nuovo direttore William Spaulding) è retto al meglio dalla magnifica direzione, capace d’ispirarlo, guidarlo e sostenerlo in ogni momento non importa quanto delicato. Ricchezza di dettaglio (memorabile, in particolare, l’articolazione ovunque leggibilissima dei molteplici piani sonori del grande concertato) entro un arco narrativo dinamico, elastico, privo di cadute di tensione, dai contrasti nitidi, di estrema logica e coerenza teatrale.
Lo spettacolo di Keith Warner è stato abbastanza maltrattato, persino dalla solitamente assai sciovinistica critica locale, tutta un rimpianto per la produzione precedente. Non ne comprendo le ragioni. Regia impostata su di un marcato antinaturalismo, con evidenti spruzzate espressionistiche. La tempesta iniziale, ad esempio: l’immobilità e le posture innaturali, certi contorcimenti e cadute in un buio rotto solo da rari lampi, rendono secondo me benissimo la geniale lunghezza d’un brano per l’appunto espressionista nel suo ritardare così tanto l’ancoraggio tonale. Il palcoscenico per lo più vuoto chiuso da pareti mobili che modulano con abilità lo spazio sfruttando anche le ottime luci, concentra l’attenzione sui personaggi com’è costume anglosassone che, se tutti i teatri nazionali prendessero a esempio, tanto ma tanto meglio sarebbe. Il gioco cromatico tra bianco (riferito a Desdemona ma anche ai veneziani, riassunti nel gigantesco leone candido che scorre nel terz’atto e poi appare rimpicciolito e sventrato al quarto) e nero riferito agli altri è magari semplicistico, come lo sono le due maschere – nera e bianca – che nel silenzio iniziale Jago tiene in mano, nonché lo specchio deformante nel quale Otello contempla il proprio disgregarsi sentimentale: ma vivaddio è chiaro, e lasciamo i quiz tanto intelligenti ai tedeschi e affini. Certo, il carisma c’è chi ce l’ha (Kaufmann al massimo, Vratogna abbastanza) e chi no come l’Agresta: ma la recitazione è comunque curatissima e ovunque logica, con quel magistrale impiego dello spazio scenico che sempre costituisce la cartina al tornasole per un vero regista.
Elvio Giudici
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