interpreti A. Opie, E. Matthews, P. O’ Neill, D. Parkin, E. Campbell direttore Giovanni Reggioli orchestra Australian Opera regia Elijah Moshinsky regia video Cameron Kirkpatrick formato 16:9 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp. dvd Opera Australia 56009
Sorpresa, sorpresa. Un Rigoletto australiano ben migliore non solo di tanti nostrani, il che non farebbe notizia: ma anche di parecchi firmati da registi anche assai deputati. I quali discendono tutti dall’ormai lontanissimo spettacolo di Jonathan Miller per l’English National Opera (quello ambientato nella Little Italy newyorkese); e tutti hanno altresì tenuto presente la geniale messinscena di David McVicar e quella meno geniale ma comunque bella di Graham Vick: e guarda un po’, stiamo parlando sempre di registi d’area anglosassone. Quindi, teatro prima di tutto. Anche della voce in quanto tale, posposta alla voce sempre impiegata per esprimere qualcosa: e qualcosa capace di legarsi alle altre in un quadro narrativamente serrato e soprattutto coerente grazie anche al suo costante rapportarsi al gesto. Quindi, cartellino giallo: Opie non è Stracciari, non è Titta Ruffo, nemmeno Cappuccilli e neppure Bruson o Nucci. Ha una voce piuttosto qualunque, con diverse sdruciture nella linea, parecchio naso (quantunque meno di quanto Nucci faccia neppur troppo sporadicamente ascoltare), molta fibra e non saltuarie spinte di gola: però neppure una nota è priva d’un colore, d’un accento, d’una inflessione capaci d’imprimerle senso, di conserva a un gesto che l’iscrive entro un quadro generale di personaggio le cui molte sfaccettature compongono un’evoluzione psicologica formidabile. A me, questo basta e soperchia per ritenere il suo Rigoletto una grande interpretazione: per gli altri – e segnatamente per i soliti guardiani del cimitero degli elefanti vocali – appunto cartellino giallo e caldo invito ad astenersi, il teatro musicale moderno (quello per il quale il valore d’una nota lo si giudica non solo in base alla nota in sé ma al significato che le forniscono colore, accento, gesto che l’accompagna) non è cosa per loro.
Durante l’introduzione (Giovanni Reggioli non l’avevo mai sentito: ma spero di risentirlo, non è cosa di tutti i giorni ascoltare simile incisività, ricchezza di coloriti, sapienza di contrasti dinamici, insomma abilità e fantasia nel raccontare), in un camerino oscuro e angusto vediamo Rigoletto truccarsi il volto aggrondato e stanco, coprendolo di biacca e disegnandovi la rossa, triste bocca rossa del clown. Scoppia la festa: in puro stile Dolce vita, popolata da fauna felliniana resa ancor più oscena dal suo esser priva d’alcuna connotazione grottesca, squallidamente “normale” secondo i più consolidati parametri contemporanei. Rigoletto vi lavora fornendo i suoi “numeri” con coscienza non scevra di percepibile soddisfazione nel ravvoltolarsi in questa compiaciuta mancanza d’ogni spessore morale che non perde occasione di sottolineare. Festa neppure un secondo della quale è tirato via coi soliti gesti risaputi, bensì svolta moltiplicando figure, gesti e atteggiamenti il cui perfetto aderire al ritmo musicale scansa ogni rischio di bozzettistico in favore d’uno spaccato esistenziale dal formidabile “passo” teatrale.
Dopo lo scontro con Monterone, la scena rotante riporta Rigoletto nel suo camerino, a contemplare con sgomento nello specchio il proprio viso che emerge dalla biacca: Sparafucile (David Parkin è un po’ cavernoso ma non l’ostenta compiacendosene, anzi si sforza d’essere il più discorsivo possibile) è un coatto che ha assistito alla scena, e ora gli si propone come killer low cost. Torna a ruotare la scena: la casa di Rigoletto a due piani consente movimenti articolati e sciolti: di sopra, Gilda (Emma Matthews è la migliore del cast, bella vocina molto ben emessa, fraseggiatrice eccellente, attrice bravissima con fisico del tutto in parte) sta fumando di nascosto leggendo avidamente una rivista scandalistica che nasconde prontamente, non senza averla prima usata per arieggiare la stanza dopo aver nascosto la sigaretta proibita. Giovanna è una parente povera, zoppa, arcigna e malmostosa, che ha in uggia Rigoletto e perciò asseconda la figlia sobillandola contro di lui e le sue costrizioni. Il duca (Pau O’Neill ha pure lui fisico perfetto per la parte, viveur di lungo corso con tanto di baffetti e aria ribalda un po’ vecchio stile ma resa efficace dalla scioltezza scenica; canta anche niente male, e chissene se Schipa era un’altra cosa, erano anche ere geologiche diverse) si prova a scalare la finestra del piano superiore e rovescia un bidone della spazzatura suscitando latrati di cani invisibili, il “rumore” che insospettisce Rigoletto. Uno dei moltissimi esempi citabili di piccoli particolari logici che, oltre a serrare l’azione, le conferiscono quella credibilità quotidiana che è imprescindibile portato d’un modo moderno di raccontare: lui poi entra, guarda quello che legge Gilda, vede la sigaretta nascosta, ride divertito – e chiaramente eccitandosi ancor di più – nell’apprendere come lei sia la figlia del suo clown privato, che corteggia con pesante galanteria in un clima da fotoromanzo popolare di straordinaria ricchezza comunicativa, però recitato come in uno dei più riusciti mélo hollywoodiani, quelli dove il massimo dell’effetto rasenta spesso l’effettaccio ma non ci cade mai, e banditi son ogni cachinno, versaccio, buffoneria d’infima lega. Teatro, come ripeto, teatro all’anglosassone ovvero fondato sulla recitazione e su piccoli ma sempre significanti incisi in luogo di tante sottolineature con la matita rossa che spesso servono solo a distrarre. Esempio minimo: Gilda, allorché entra in scena dalla camera del duca, indossa la vestaglia che gli avevamo visto addosso durante l’aria, senza bisogno di metafore tipo sottoveste rossa stracciata o simili. Chiarezza, incisività, “stacchi” narrativi brucianti e immediati. È Verdi.