interpreti C. Gerhaher, J. Rowley, C. Fischesser, O. Jorjikia, N. Brownlee direttore Fabio Luisi regia Andreas Homoki regia video Michael Beyer dvd Accentus 20510
L’autopsia è uno dei capitoli più interessanti della Medicina. In campo artistico, dipende. Consente certo, nei casi migliori, la scoperta di molti particolari strutturali, isolati e posti sotto al microscopio: come dire la negazione sicura d’ogni respiro teatrale, congelato e sezionato com’è. Che è quanto succede qui.
Qualche scusante va considerata, ovviamente. Nei tempi in cui viviamo, ogni teatro ha reagito a suo modo, dalla chiusura totale alle scappatoie dello streaming: l’Opera di Zurigo s’è distinta per la decisione invero estrema di piazzare coro orchestra e direttore in luogo “altro” rispetto alla sala, facendone giungere il relativo suono via altoparlanti al palcoscenico dove agiscono i protagonisti e uno sparuto gruppo di figuranti; in sala, gruppo sparutissimo di spettatori e giornalisti tanto per offrire una parvenza d’applausi. Ne sorte appunto un Simone sottoposto ad autopsia esegetica. Luisi evidenzia un’infinità di bellurie armoniche, strumentali, ritmiche (raramente melodiche: si canta proprio poco, tanto in palcoscenico quanto – soprattutto – in orchestra): ma di tensione, di respiro drammatico, di teatro insomma, siamo prossimi allo zero assoluto. Cast scelto scientemente in area extraitaliana: si sente. Purtroppo. Christian Gerhaher è, assieme a Matthias Goerne, uno degli epigoni più ligi e consapevoli di Dietrich Fischer-Dieskau: liederista di chiara fama, cesella il fraseggio quasi sillaba per sillaba, ma colore, ampiezza, armonici, proiezione, spessore umano, sono sull’altra faccia della luna per quanto concerne il fraseggio verdiano (con quella tipica dizione tutta in punta di forchetta, ricercatissima, che strazio!), e a dirla tutta la linea vocale non è un prodigio di morbidezza e tampoco di uguaglianza, senza contare il timbro biancastro e abbastanza sgradevole. Jennifer Rowley ha una grande voce ma la padroneggia a spanne; grida spesso, la linea è dura e frastagliata, l’accento è a lama di rasoio: un’anti-Amelia. Christof Fischesser wagnerizza “Il lacerato spirito” in modo per me inascoltabile, e prosegue enfatizzando oltre misura il carattere cupo di Fiesco, persino nel duetto con Adorno: ruvido, aspro, morchioso, affetto da frequente vibrato, con diversi birignao da Cattivo Infame banalizza orridamente il personaggio. Peggiore di tutti Otar Jarjikia, un Gabriele di lingua burgunda che strilla su e apre sguaiatamente giù, ennesima parodia del fraseggio verdiano.
Lo spettacolo ha diverse idee potenzialmente interessanti, ma tutte nell’ambito di una sala autoptica tenuta a temperature sottozero. Scena vuota e semovente, conclusa da doppia parete con porte che si aprono e chiudono evidenziando nel loro incessante ruotare camere e corridoi nei quali corrono di continuo dei personaggi resi una sorta di topi persi in un claustrofobico labirinto e circondati da alcuni figuranti mascherinati che ne rappresentano i ricordi e le relative emozioni (Maria che muore, la piccola che resta sola e diviene Amelia, etc.), mentre al centro campeggia una barca bianca con tutta la simbologia connessa al passato marinaro di Simone e all’essere repubblica marinara Genova. Un momento mi pare molto suggestivo: all’inizio del prim’atto, il giovane Simone – che dopo il confronto con Fiesco era restato accucciato a terra – “vede” la sua bambina accanto allo scheletro della barca, e un bell’impiego del chiaroscuro ci mostra dapprima la sparizione della bambina e poi, all’apparire dell’adulta Amelia vestita come la bimba, la sparizione di Simone. Altrove, predomina la simbologia insistita (però fare di Fiesco sotto mentite spoglie un frate con grande croce sullo sfondo, e quindi di Amelia una sorta di suora di clausura abbigliata però di rosso, mi pare idea alquanto peregrina) frammista a realismo spiccio un po’ camp con l’uso insistito di pistole manovrate da figuri molto stile mafioso con tanto di gessato e Borsalino; ignoro che significato possa avere il frequente scricchiolare delle scarpe; e la grande scena dell’agnizione letteralmente svapora, con Simone e Amelia che manco si guardano e deambulano di porta in porta. Scavare nella drammaturgia è cosa sacrosanta, ove si voglia far vivere con cognizione di causa teatrale il gran teatro di Verdi: ma il cerebralismo spinto tende invece ad ammazzarlo.
Elvio Giudici
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