interpreti J. Uusitalo, J. Daszak, F. J. Kapellmann
direttore Zubin Mehta
orchestra de la Comunitat Valenciana
regia Carlus Padrissa (La Fura dels Baus)
regia video Tiziano Mancini
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp.
2 dvd Unitel 700508
Innegabile come la messa in scena del Ring sia giunta ad un’impasse. Dopo le prime proposte di Joachim Herz, Luca Ronconi, Götz Friedrich, Patrice Chérau – in ordine cronologico di andata in scena – il Wagner che proietta nel Mito grovigli psicologici borghesi gemelli siamesi di quelli di Ibsen e Strindberg, è stato esplorato in ogni direzione. Con esiti variabili dall’interessante (Morabito, Konwitschny) al buono (Nel, Decker, Vick, Flimm) all’eccezionale (Kupfer, Carsen, Holten), ma alla fine trovandosi assai vicino al vicolo cieco.
Una via di rinnovamento potrebbe essere allora il recupero della dimensione mitica, negletta da trent’anni almeno. Ma quale Mito? Pelli, elmi cornuti, clave e quant’altro accatastato al Metropolitan da Schenk, fecero scompisciare. L’astrattezza atemporale poggiata solo sullo svariare delle luci, alla Wieland Wagner, oggi annoierebbe senza rimedio. Il gruppo catalano La Fura dels Baus propone allora una furbissima sintesi tra “luce narrante” di Wieland e il suo ovvio contraltare costituito dalle immagini proiettate: di qualità non solo strepitosa di per sé, ma anche aderenti al flusso musicale con effetto enfatizzante, allusivo, chiarificatore.
Il risultato è talora didascalico, riducendosi a pura illustrazione allorché si abdica a una regia vera che metta in relazione dei personaggi provvisti d’identificazione e sviluppo psicologico. Molto spesso, però, ci sono idee memorabili: in ciò, è proprio Rheingold il tassello dove si tocca il capolavoro d’una spettacolarità visiva comparabile all’illimitata fantasia epica del Signore degli Anelli. Lo stesso oro, per cominciare: uova custodite dalle Ondine nel liquido amniotico dove stanno immerse, rubate da un Alberich davvero violentatore della Natura che le manipola geneticamente in un antro alla Alien, generandone uomini-robot che seguono strisciando il Padrone dell’Anello. Gli Dei bloccati su alte gru basculanti che li proiettano anche al di là dell’orchestra, in un gigantismo dal forte impatto non solo visivo ma drammatico. Il Walhalla: un tessuto molecolare di uomini allacciati tra loro in una spettacolare rete che poi diventa il Pensatore di Rodin in computer graphic.
La fluida, baluginante nitidezza della scena trova riscontro nella concertazione nitida, trasparente, ricchissima di splendidi particolari d’uno Zubin Mehta in forma smagliante alla testa di un’orchestra di tanto più ragguardevole in quanto appena assemblata nella nuovissima meraviglia che è il teatro valenciano uscito dalla fantasia di Calatrava. E si avvale d’una compagnia nel suo complesso eccellente, dove accanto al mercuriale Loge di John Daszak e alla viscida roccia che è il canto di Franz-Josef Kapellmann nei panni di Alberich, brilla una punta di diamante dalla statura non meno che storica: il Wotan di Juha Uusitalo, con la sua voce ampia ma morbidissima, che canta sempre anziché rifugiarsi nel piatto declamato, con fraseggi memorabili. Riprendere uno spettacolo di questo tipo, costruito molto più su luci, colori e immagini in movimento che non su di una regia vera e propria, costituiva sfida delle più ardue: l’averla vinta alla grande, fa di Tiziano Mancini uno dei capifila della non foltissima ma agguerrita schiera dei migliori registi televisivi.
Elvio Giudici