interpreti M. Volle, K.F. Vogt, J.M. Kränzle, D. Behle, G. Groissböck, A. Schwanewilms direttore Philippe Jordan orchestra festival di Bayreuth regia Barrie Kosky regia video Michael Beyer sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp., Cin. 2 dvd 004400735450 prezzo 25,80
Sempre firmata Wagner, nel dopoguerra, la messinscena dei Maestri a Bayreuth. Wieland impegnato nelle sue due produzioni a togliere ogni riferimento alla città e quindi ogni possibile ricordo sia del suo essere stata individuata come utopia ideale del buon tedesco (Wagner, come si sa, l’immaginava ambiente perfetto per il suo delirio vaneggiante di una nuova Repubblica di Platone governata da artisti); sia della degenerazione di tale utopia nelle leggi razziali promulgatevi mentre diventava vetrina privilegiata dei discorsi di un Hitler innamorato perso della musica e del testo di quest’opera; sia infine del triste epilogo costituito dai processi di Norimberga. Wolfgang che cercava pateticamente di creare sbiadite cartoline d’epoca con tutte le didascalie al loro posto che proprio per questo facevano pensare ancor di più a tutto il retroterra che l’opera porta entro di sé. Katharina, infine, che con coraggio, fantasia e abilità decideva di prendere di petto tutti i fantasmi evocati da questo titolo (l’arringa finale di Sachs come parodia dei farneticanti discorsi di Hitler), onde meglio esorcizzarli una volta per tutte.
Dieci anni dopo, la stessa Katharina propone la regia non solo per la prima volta a un non-Wagner, ma a un artista australiano di talento che in un’intervista al “New York Times” ebbe a definire se stesso “un ebreo canguro gay” e che durante la sua carica di direttore della Komische Oper di Berlino ha voluto riproporre autori celebri all’epoca della repubblica di Weimar e poi dimenticati, come Emmerich Kálmán, Paul Abraham, Oscar Straus.
Kosky, dopo un iniziale rifiuto, accetta. E imposta la propria regia lungo una direttiva parallela a quella seguita da Stefan Herheim per Parsifal (che ne narrava la storia leggendovi in filigrana quella della Germania e di Bayreuth): quindi i Meister come storia personale di Wagner artista e uomo – con le relative idiosincrasie antisemite – che, per traslato, finisce col dire molto della Germania stessa. Una storia che presuppone un po’ di conoscenza della biografia e del quotidiano di Wagner (al festival di Bayreuth questo è a dir poco scontato): ma che comunque è in ogni momento leggibilissima, e condotta con un’abilità tecnica non meno che portentosa.
Sul Preludio celeberrimo (anche tristemente, ricordando quanto fosse la colonna sonora di certe “oceaniche adunate”) si srotola uno spaccato di vita quotidiana – cenacolo sarebbe il termine da Wagner ritenuto come il più appropriato – a villa Wahnfried: ricalcato sul non meno celeberrimo dipinto di Georg Papperitz. Wagner al centro, col suo berretto e i suoi due terranova, che riceve in regalo…un paio di scarpe!, mentre Cosima presenta una delle fastose sciarpe di seta che Richard amava tanto e altri recano profumi vari, anch’essi amatissimi; attorno, Liszt al pianoforte e famigli vari. Pian piano, tutti “diventano” personaggi dei Meistersinger. Wagner si sdoppia nel maturo ciabattino Sachs – fautore d’una musica che rinnovi una augusta e venerata tradizione – e nel giovane aristocratico Walther, capace con la sua fantasia di crearla. Cosima ovviamente diventa Eva, appellativo con cui spesso Wagner la designava nelle sue lettere. Liszt padre di Cosima non può che impersonare Pogner, e il direttore ebreo Hermann Levi che gira le pagine assume l’imbarazzante ruolo di Beckmesser, mentre Magdalene è una delle domestiche di casa. All’attacco del Corale che subito segue il Preludio, Wagner invita tutti a inginocchiarsi, obbligandovi anche Levi-Beckmesser: molto riluttante, tanto da farlo fuori tempo.
Nella biblioteca di Wahnfried, il prim’atto segue fedelissimamente ogni prescrizione didascalica. Ma nella generale gestualità c’è un sottile, onnipresente “sopra le righe” che come lievito segreto rende tutta la narrazione vagamente ironica se non proprio caricaturale (quegli apprendisti che spuntano da dietro il pianoforte, anch’essi piccoli Wagner con tanto di celebre berretta! e quei Maestri che si passano l’un l’altro le regole codificate in un libretto rosso di Maoiana memoria!!): non tanto, giusto quel pizzico che brechtianamente ci “distanzia”. E sulle ultime battute del prim’atto, allorché Sachs resta solo a rimuginare su quanto appena accaduto, un prodigio scenotecnico di Rebecca Ringst: la biblioteca arretra e scompare nel buio, sostituita dall’aula ancora vuota in cui si svolse il processo di Norimberga, con Sachs-Wagner solo alla sbarra degli imputati.
Second’atto che inizia con la stessa aula sullo sfondo, mentre il proscenio è occupato da un verde prato su cui fanno un picnic Liszt-Pogner e Cosima-Eva, seguito da un appuntamento galante di lei con Wagner-Sachs: ma su questo idilliaco ambiente, Kosky fa incombere lo stesso globo fiorito che con sommo scandalo Wieland impiegò nel 1956 quale simbolo della città di Norimberga. La colossale baruffa inscena un vero e proprio pogrom, che culmina nell’ebreo Levi-Beckmesser (che aveva cantato dalla sbarra dei testimoni la propria canzone) schiacciato da un grande ritratto di Wagner fracassatogli sulla testa da Davide, e costretto infine a mettersi sul viso una maschera le cui fattezze riproducono una delle tristemente note caricature naziste dell’ebreo: nel mentre, gli si gonfia accanto un’enorme maschera di gomma dagli identici tratti fisiognomici, che sulle “rassicuranti” note del Guardiano Notturno si sgonfia lasciando scorgere la stella gialla con cui i nazisti marchiavano gli ebrei, sormontata da una kippah.
Terz’atto tutto nell’aula del tribunale, pavesata con le bandiere degli occupanti la vinta Germania che tali processi istituirono. Qui, chiaro come il monologo di Sachs assuma peso e chiaroscuri assai diversi dalla consueta bonomia melanconica: un’inquietudine lo intride da cima a fondo (e il sovrano canto di Volle la rende a meraviglia), come una sorta d’angosciosa premonizione d’un futuro oscuro. Eva non compare più con gli elaborati abiti ottocenteschi di Cosima bensì abbigliata col popolare e tradizionalissimo Dirndl: e il Quintetto, con tutti schierati in fila al proscenio sotto tagli di luce freddi che scavano ombre profonde, ha toni quasi di disperazione. Nella gara di canto, popoli e Maestri sono nel contempo giudici e accusati, con tutto quanto la cosa comporta: gioia innocente che non sa quanto di tremendo ne possa derivare. Solo, in un tribunale fattosi d’improvviso deserto, alla sbarra dei testimoni è Wagner stesso, a reiterare ostinatamente come propria difesa la sua cocciuta utopia: al termine della quale, con un altro prodigio scenotecnico, le pareti dell’aula si sollevano per far posto a una grande scalinata su cui stanno coro (autentico) e orchestrali (mimi) in abiti contemporanei, che Wagner – adesso solo Wagner – “dirige” assumendo tratti e posture identici a certe trite caricature ottocentesche.
L’arte autentica va assolta anche se talune sue scorie ideologiche possono essere artatamente amplificate in più nauseabonde mistificazioni propagandistiche. L’ariana Katharina aveva mostrato in modo terrificante tali pericoli: l’ebreo Kosky denuncia tanto l’uomo quanto l’artista, ma tale dialettica la risolve a favore di quest’ultimo, lasciato solo in un primo piano musicale che si tinge di infinita, quindi assolutoria, compassione.
Spettacolo intelligente impostato e svolto benissimo con un’estrema chiarezza che in Germania è cosa più unica che rara, ma che ancor più avrebbe coinvolto con altro direttore: e penso subito alla mercuriale, vivacissima, dinamicissima, trasparentissima orchestra di Kirill Petrenko purtroppo penalizzata da uno spettacolo (di David Bösch) all’insegna del consueto miserabilismo tutto astruserie pseudo-intellettuali che in Germania è regola ubiquitaria. Jordan non dirige certo male, ma la sua fantasia in fatto di dinamiche e agogiche è alquanto scarsina: belle sonorità asciutte, rattenute e quasi cameristiche, all’insegna d’una raffinata melanconia che tuttavia sconfina spesso con una tal quale freddezza.
Nel cast, spiccano Sachs e Beckmesser. Volle, già superbo Beckmesser con Katharina, replica il Sachs già cantato a Salisburgo con Gatti, superandosi vocalmente e confermandosi attore non meno che straordinario: dizione fenomenale, musicalità perfetta posta a reggere un declamato capace delle più infinitesime sfumature accentali, resistenza a tutta prova favorita senza dubbio dalla tanto particolare acustica della sala. Johannes Martin Kränzle, sei anni prima già grandissimo interprete di Beckmesser nello spettacolo di McVicar a Glyndebourne, era da poco reduce dalla traumatica esperienza della sindrome mielodisplasica – una forma di leucemia – superata grazie al trapianto fornitogli dal fratello. Ancor più straordinaria, dunque, la gamma di sfumature tutte commoventi, umanissime, che l’impostazione così particolare di Kosky suggerisce e che lui realizza tanto nei gesti quanto in una linea vocale di prodigiosa duttilità: Levi che viene ammesso nella cerchia di Wagner solo per sopportazione dell’inevitabile, che riconosce il genio di un uomo che sa benissimo quanto in realtà lo disprezzi, solo un’anticchia meno di quanto riesca insopportabile alla Cosima che nel suo nauseabondo Diario dispensa agli ebrei un vero e proprio odio (le pagine descrittive della visita di Catulle Mendès sono molto istruttive).
Gli altri sono su di un livello inferiore ma comunque notevole, cosa che nella recente storia di Bayreuth s’è verificata assai di rado: Vogt canta molto bene, ma con fraseggio un po’ tirato via; Günther Groissböck un filo troppo compiaciuto della propria ampiezza vocale, così come David Behle cincischia parecchio ostentando mezzevoci e filati non sempre appropriati; stuolo dei Maestri più che discreto. Unica ma consistente falla è la Eva di Anna Schwanewilms: oltre a essere fisicamente troppo matura per il ruolo, lo massacra con la sua voce acidula, la frammentazione d’una linea incapace di sostenerre un autentico legato, ogni acuto uno strillo, in una generale anemia di fraseggio che va di conserva a una gestualità tutte mossette e saltelli, niente bella da vedere.
Elvio Giudici
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