interpreti S. Andersen, T. Kiberg, S. Resmark, T. Hakala, P. Arnoldsson
direttore Friedemann Layer
orchestra Royal Danish
regia Kasper Holten
regia video Uffe Borgwardt
formato 16:9
sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp., Cin., Dan.
2 dvd Decca 0743390
Il problema posto dalla drammaturgia di quest’opera è tra i più spinosi e difficilmente solubili. Se chiarissimo è il suo fondarsi sul dualismo Venus-Elisabeth ovvero sesso e amor coniugale (che l’Ottocento teneva rigorosamente distinti, con gli inevitabili guai pubblici e privati che ne derivano), molto meno lo è il come riuscire a tradurlo sulla scena senza: a) far ridere, specie ai nostri giorni che quanto a baccanali privati e pubblici lasciano ormai ben poco spazio all’immaginazione; b) ridurla a bigino di filosofia spicciola, anch’essa a forte rischio comico involontario; c) produrre un santino tipo gita parrocchiale a Lourdes con redenzione, pellegrinaggio e salvazione tutto compreso. Chiaro come l’unica strada percorribile sia quella della metafora. La più praticata concerne il rapporto sempre conflittuale tra artista e società (regie di Carsen, Vick, Kupfer, Alden, Py, tutte in qualche modo debitrici sia dell’antico spettacolo di Jürgen Fehling nella Berlino anni Trenta, sia di quello di Götz Friedrich nella Bayreuth dei Settanta); oppure l’antitesi tra due anime diverse della società contemporanea (lo stupendo spettacolo di Peter Sellars a Chicago, per il quale ovviamente la società era l’americana), oppure la schizofrenia di un intellettuale desideroso dell’integrazione sociale di cui sente però sia l’ipocrisia sia la costrizione sulla libertà di pensiero, e il cui approdo finale altro non può essere che la pazzia (regia di Claus Guth).
In linea di massima anche Holten, al suo secondo incontro con Wagner dopo il Ring di gran lunga più bello degli ultimi trent’anni – e anch’esso fortunatamente fissato su dvd – sceglie la prima strada: dualismo artista-società. Ma il suo artista è Wagner medesimo. Cosa che ha una sua inoppugnabile logica: favorito (o motivato) dall’essere lui stesso l’autore del libretto, attraverso i suoi dei, eroi, cavalieri, cantori, Wagner sostanzialmente parla sempre di se stesso e dei casi propri. Dunque qui, durante la prima parte dell’Ouverture (versione Parigi), Tannhäuser scende le scale d’una casa borghese vestito con giacca da camera e berretta di velluto sulle ventitré che i ritratti di Wagner hanno reso celebre. È sposato con Elisabeth, e hanno un bambino sui dieci anni (canterà – malissimo, povero – le strofe del pastorello); di mestiere fa l’intellettuale, e scrive; ma per scrivere ha bisogno dell’ispirazione: la sua Musa è Venus, che all’inizio stava accoccolata sotto lo scrittoio, poi si alza, vestita come lui ma con chioma rosso fiamma, da dietro gli pone la mano sulla fronte e sulle prime note del Baccanale lui attacca a scrivere con un sorriso radioso. Quello che vediamo si svolge quindi nella sua immaginazione creativa, che deforma e anzi capovolge il suo quotidiano: domestici, anziché apparecchiare il cibo e pulire, mangiano e versano acqua dappertutto, le scale scivolano ruotando su se stesse componendo un’inquietante astrazione, sorta di mostro dalle fauci aperte sul genere delle famose litografie di “Mauk” Escher (quelle stesse impiegate genialmente da Jim Henson nel suo Labyrinth), un cameriere cammina in alto a testa in giù, e insomma ogni prospettiva si ribalta; lui crea, sì, ma l’ispirazione gli succhia la vita. E lo conduce metaforicamente via dal suo mondo reale, che non lo soddisfa e che quindi contrasta, ma con una psiche schizzata e forti sensi di colpa, quest’ultimi efficaci sostituti per quelle contraddizioni religiose d’un testo che al riguardo s’è fatto da noi lontanissimo: mentre che l’artista debba scegliere tra propria vita interiore e le responsabilità sociali, questo può valere ancora. Da quest’angolatura, la gara di canto è un capolavoro di amarissima ma anche irresistibile ironia: Venus è presente, e si sbellica dalle risa suscitando la reazione di Tannhäuser/Wagner, anche nei confronti di chi gli è amico come Wolfram, reso una sorta di spettro ossessivo; e allorché l’artista declama l’inno al libero amore, le signore-bene che ascoltano sono prima visibilmente interessate facendo finta di niente, poi svengono tutte insieme con grazia, omaggio supremo alla morale e alla Dea Ipocrisia, molto più potente di Venere. Il racconto di Roma è per l’appunto l’opera capitale dell’artista, letta con esaltazione a Wolfram: e se la redenzione, ovvero la libertà artistica, è negata (sicché l’artista che non voglia integrarsi deve per forza vivere ai margini della società, che alla fine del second’atto strappa selvaggiamente i fogli di Tannhäuser), l’ultimo perdono diventa la fama postuma, rappresentata da una targa che inneggia al grande poeta Tannhäuser, ed è decorata da un ramo d’alloro.
Sotto la guida musicalissima, molto articolata e di grande intensità di Layer alla guida di un’ottima orchestra, il cast è formato tutto da attori straordinari che cantano nel complesso molto bene, riuscendo anzi uno dei migliori degli ultimi tempi. Solido e sicurissimo Stig Andersen; eccellenti tanto la Venus di Susanne Resmark – voce di timbro davvero splendido – quanto l’Elisabeth di Tina Kiberg (un’impostazione siffatta, tra l’altro, rende scenicamente ininfluente la stazza considerevole dell’una e l’età non verdissima dell’altra); un po’ rigido ma molto bravo il Wolfram di Tommi Hakala, e ottime le parti di fianco.
di Elvio Giudici