serie L’Opera. Storia, teatro, regia editore Il Saggiatore pagine 1300 euro 52
“Proprio la scuola registica che nel dopoguerra s’è sviluppata in area tedesca è quella presa maggiormente a bersaglio dai conservatori a oltranza quando bollano come ‘eurotrash’ ogni spettacolo che pretenda scostarsi dal rispetto scrupoloso delle didascalie. Pure, in essa operano alcune delle figure più propositive e interessanti del teatro moderno; perché del repertorio classico analizzano figure, contesti, sottotesti e rapporti sociopolitici in modo sovente oltremodo rivelatore”. Non si poteva dire meglio. L’analisi degli spettacoli ubbidisce sempre a una capillare lettura teatrale della rappresentazione. Elvio Giudici in questo terzo volume dedicato all’Ottocento della monumentale serie sull’interpretazione dell’opera, in particolare visiva (il secondo tomo sarà dedicato esclusivamente a Verdi e Wagner) osserva, giustamente, che con gli anni, l’interpretazione musicale è profondamente cambiata. Perché, di par passo, non sarebbe dovuta cambiare anche la messinscena? Il teatro invecchia presto: se guardiamo le foto di spettacoli di non troppi decenni fa ci viene da ridere, per esempio, a guardare i costumi “svizzeri”, la “baite”, le treccine, i pantaloni alla zuava, di tante messinscena della Sonnambula di Bellini. Per non parlare dei video. Ce n’è uno in cui Renata Tebaldi interpreta Mimì, nella Bohème. Smorfiette, dita delle mani unite, passettini, roba da caricatura del melodramma. La voce, certo, fa dimenticare l’imbarazzante prestazione scenica. Ma davvero, poi, la fa dimenticare? E come mai la Tosca della Callas, invece, non fa ridere? Era cominciata una nuova epoca. Se ne accorse Visconti. Molti, però, non se ne accorsero, e anzi l’avversarono. La Traviata alla Scala non piacque. Nomi famosi della critica scrissero stroncature oggi memorabili per la loro ottusità. Fanno il paio con il critico viennese che a proposito del concerto per violino di Beethoven scrisse che se Beethoven continuava a comporre così presto nessuno avrebbe voluto ascoltarlo. Ma giustamente Giudici chiama in causa il teatro tedesco. La rivoluzione del teatro moderno infatti comincia proprio in Germania, ma non adesso, bensì nel XVIII secolo, ad Amburgo con Lessing, a Weimar, con Goethe. Il teatro non era più divertimento, intrattenimento, ma cultura, come la poesia, come il romanzo. I registi tedeschi di oggi ne sono gli eredi. L’altro polo della rivoluzione teatrale moderna fu, aggiungo, la Francia del periodo rivoluzionario e napoleonico. Più tardi la Russia. Esemplificative, comunque, di questa impostazione critica sono le pagine che Giudici dedica ad alcune opere che storici della musica, critici e pubblico hanno sempre considerato quasi non opere: la Genoveva di Schumann (condivido pienamente il giudizio di Harnoncourt che sia, invece, una delle più belle dell’Ottocento) e la Damnation de Faust di Berlioz. Ma rivelatrici risultano poi le pagine dedicate a una delle opere più rappresentate nel mondo: Carmen. E qui entra in scena un’altra civiltà teatrale grandissima: quella del teatro inglese. Il gusto della narrazione, del racconto teatrale, che caratterizza sempre uno spettacolo inglese. Ma si leggano anche le pagine dedicate a Rossini, a Offenbach. E gli italiani? Tranne pochi nomi, sembrano condannati alla “decorazione”. Il che ha educato un pubblico al gusto più delle scene, dei bei costumi, che dell’azione teatrale vera e propria. Un popolo, insomma, come fu scritto, di accademici, di retori e di esteti.
Dino Villatico
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