Musica come magia infranta. Scritti e interviste a cura di Pietro Cavallotti e Luigi Pestalozza editore Lim-Ricordi pagine 246 euro 23
“La sua musica ci conduce verso i territori sismici dell’esperienza umana dove nessun edificio può resistere perché le sue fondamenta si spostano sotto l’impulso di scosse continue”, così Lachenmann conclude lo scritto in memoria di Nono che egli considerava suo “maestro” pur tra tutt’altro che tranquille divergenze; e tuttavia quelle “mostruose rovine” sopravvissute al sisma sembrano indicare il senso di una “lezione” che la frequentazione del musicista veneziano aveva impresso nel suo cammino, soprattutto l’ultima produzione noniana, “la tragedia dell’ascolto”, musica che si inoltra “in ambiti che noi definiamo utopici, semplicemente perché ne rinnoviamo la reale presenza in ogni momento della nostra quotidianità civilizzata”. Considerazioni che mi riportano a una lontana intervista con Lachenmann e al suo rapporto con Nono e alla contraddizione tra la critica sociale che Nono rivendicava e la difficoltà del suo linguaggio sonoro; Lachenmann rispose di non credere a quella contraddizione, perché “il gesto enfatico di questa musica è talmente puro, anche se è chiaro che si tratta di un’enfasi, di un appello di un altro mondo, quasi utopico. E questa – chiarisce – è la grande differenza tra Nono e gli altri esponenti dell’avanguardia: le trombe di Nono fanno ancora appello come quelle di Beethoven, e così i timpani, le campane. C’è un pathos, non nel senso banale, commerciale, totalmente puro”. Risposta che ci riporta nel cuore del mondo di Lachenmann la cui complessità possiamo avvertire attraverso la lettura dei saggi riuniti in questo volume Lim-Ricordi, oltremodo rivelatore della visione del compositore. Giustamente Pietro Cavallotti, curatore della raccolta, sottolinea l’analogia tra Lachenmann scrittore e il compositore, soprattutto per la “polistratificazione” che contrassegna la sua musica, un paesaggio dove le “rovine” innescano un nuovo modo di rapportarsi con la storia, i cui reperti accoglie come residui lavici di un vulcano che sembra aver cessato la propria attività e che tuttavia emana pur sempre il senso di un’energia sotterranea. Percorso che Lachenmann riassume nel saggio d’apertura, “Da dove vengo, dove sono, dove vado?”, lucido autoritratto che attraverso la lettura dei saggi seguenti, integrati da alcune interviste, si arricchisce di suggestioni legate all’esperienza del compositore. Particolarmente rivelatrice l’intervista con Klaus Zehelein e Hans Thomalla sul problema dell’opera: una sfida per Lachenmann: “data la mia provenienza, in un primo momento l’opera era per me esclusa”, pur nella convinzione che “il rinnovamento dell’ascolto dovesse avvenire nella fossa del leone, richiamandosi alla nostra grande tradizione musicale, e non nel ghetto tollerante e qualunquista della ‘scena della nuova musica’”. Il soggetto, quello della Piccola fiammiferaia di Andersen che, col suo romanticismo, poteva sembrare all’estremo dell’orizzonte del musicista tedesco, ha funzionato benissimo, proprio grazie alla radicalità del taglio linguistico mediante il quale Lachenmann si è appropriato del personaggio indifeso per farne un archetipo del disagio esistenziale. Personalità complessa, irriducibile alle formule entro cui è stata racchiusa troppo drasticamente la sua visione, come la sequenza di questi saggi rivela con ben altra duttilità a conferma della quale torno col ricordo al lontano incontro quando il discorso aveva virato sulla pittura quale termine di pur confuse analogie. Escludendo nettamente il rapporto fatto da qualcuno con Francis Bacon – “con il grande pittore inglese non ho niente a che fare” – lascia intravedere qualche assonanza con la pittura di Anselm Kiefer, dove la storia è come impressa in modo annichilito; non meno che con quella di Beuys, l’artista sciamanico che emana dalla sua opera l’idea di ‘magìa’. “Indubbiamente sono affascinato da Beuys” pur affrettandosi a precisare come “la ‘magìa’ deve essere ‘sospesa’: lo stesso per l’ ‘idillio’”. In effetti Lachenmann rimarca come per molti la sua musica abbia avuto a che fare solo con la violenza: “Ma lei è stato traumatizzato dalla guerra, mi dicono, in realtà a me piacciono le cose serene, toccanti”, e non a caso, proseguendo il discorso sulla pittura, oltre a Twombly – “quanta energia in quei suoi graffiti” – dice di essere particolarmente toccato da Morandi, chiave magicamente inattesa, significativa di un’interiorità profonda, tormentata…
Gian Paolo Minardi
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