editore Zecchini pagine 366 euro 29
Dalla lettura di questo avvincente, quanto angosciante libro sono affiorati alcuni momenti di quel flusso di memorie sedimentate dal lungo, amichevole rapporto con Lazar Berman, il grande pianista che ha concluso la sua tormentata vicenda in Italia, nell’amata Firenze. Sono le confessioni che, con l’ingenuità tipica del personaggio – “un gigante gentile” lo definisce Ciammarughi – si lasciava sfuggire, toccate da quell’ironia che sottintendeva la gravità di un risarcimento impossibile; ma soprattutto era il senso di disperazione di quelle telefonate a Mosca a un amico confidente per avere notizie sulla concessione del visto di uscita per la moglie Valentina, oppure le ansie per l’ammissione del piccolo Pavel – oggi un affermato violinista – al gruppo scelto per i Concorsi Internazionali, e ancora il fastidio per quell’“accompagnatore” che lo seguiva come un’ombra nelle tournée, e che gli ricordava gli insinuanti allettamenti del Kgb affinché diventasse lui stesso “informatore” sul comportamento dei colleghi; non senza il senso di grottesco con cui denunciava il compenso, gestito dall’implacabile macchina del “Goskonzert”: all’artista solo il dieci per cento del cachet; e poi i ricordi penosi degli anni in cui il riconoscimento del suo talento era stato lungamente frenato dalla sua origine ebrea: concerti in lontani paesi sperduti, in squallide Case per anziani dove doveva lottare con strumenti, spesso verticali, impossibili e magari presentato sotto un altro nome. Un groviglio di memorie di sapore gogoliano che trovavano una sintesi tragica nel commento sull’artista più celebre che aveva “scelto la libertà”, Ashkenazy: “Ma ha lasciato là sua madre!”. Terribile sentenza che è una delle chiavi per entrare nel gorgo di questa storia che Ciammarughi ha ricomposto con l’acutezza che lo guida nell’interrogare il passato e la sensibilità del musicista, critico e pianista di segno sicuro, nell’esplorare la variegata trama del pianismo russo che si distende lungo il Novecento. Un libro che può immaginarsi nato dalle costole del recente Da Benedetti Michelangeli alla Argerich, pubblicato sempre da Zecchini, in cui Ciammarughi percorre il panorama interpretativo più recente, con un senso critico spassionato e penetrante che nel nuovo, arduo cimento trova più complesse sollecitazioni nel confronto con una realtà così drammaticamente sconvolta quale quella che si apre tra “la rivoluzione d’ottobre” e “ la guerra fredda”. Il quadro è quello che è andato svelandosi da tante testimonianze, dalle lettere di Sostakovic e quelle di molti altri protagonisti ma l’originalità del lavoro di Ciammarughi sta nell’indagare come quella temperie di terrore, con le purghe staliniane, le persecuzioni motivate dal non allineamento alla visione del regime ma pure dall’ostilità verso gli ebrei, gli omosessuali e quant’altro, avesse agito sulle singole personalità dei pianisti. Ne sortisce un racconto assai intrecciato dal quale le più diverse situazioni, da quelle di chi è uscito prima della rivoluzione, come Horowitz, Rachmaninov, Magaloff, a quelle di chi col regime ha dovuto convivere, subirne le umiliazioni, gli sfregi estremi anche, lasciano pur sempre trasparire quella forza delle radici di cui la musica era il seme prezioso, inestinguibile, quello che nutriva gli artisti non meno che il popolo, un antidoto contro l’orrore, come ha detto Bruno Monsaingeon nella bella intervista che correda il volume: “Si creavano un mondo di libertà dentro di sé”.
Gian Paolo Minardi
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