Giacomo Puccini. Aspetti di drammaturgia editore Libreria Musicale Italiana pagine 140 euro 20
Il sublime Deo gratias di Johannes Ockeghem, un canone a 36 voci, e la non meno sublime Lettera amorosa di Claudio Monteverdi hanno in comune il fatto di essere musiche destinate al canto. Ma hanno intenti profondamente diversi. Il primo di ringraziare Dio con un’architettura musicale che vuole rispecchiare nella propria complessità la complessità del Pensiero che ha creato il mondo. La seconda, che in partitura è dichiarata essere composta “in stile rappresentativo”, si propone di rappresentare l’emozione di una donna che legge la lettera di un amante. Il senso della musica sta quasi tutto nel modo in cui la musica è composta. Ecco, in questa differenza sta lo scarto tra la musica da godersi come solo musica e la musica destinata alla scena.
Questa differenza nella bella raccolta dei cinque saggi di Marcello Conati qui messi insieme e introdotti da Virgilio Bernardoni per la Lim è illustrata con acume e chiarezza. Un’appendice di abbozzi del libretto di Illica per una mai cominciata Maria Antonietta completa il volume. Conati su Puccini non dice qualcosa che non fosse stato detto da altri, ma il merito di questi scritti è di centrare il problema e di chiarirne una volta per tutte la portata non solo musicologica. Puccini scrive musica drammaturgica, costruisce una drammaturgia musicale, il che significa che la musica ha senso solo nell’azione reale sulla scena. Costruisce anzi essa stessa l’azione, i tempi dell’azione, che non corrispondono affatto a tempi realistici d’azione, ma a quella dilatazione o concentrazione del tempo ch’è tipica della musica per il teatro. Puccini ne è un maestro. E adotta una “musica di conversazione” che abolisce le cesure tra un momento e l’altro dell’azione. Il modello, più che nell’opera francese, va cercato nell’ultimo Verdi e in Wagner. Compreso l’uso di motivi ricorrenti, o sottintesi, non espliciti (un accordo, un intervallo, legati a un pensiero, un personaggio, un gesto). Il pregiudizio da scavalcare è quello di ritenere che la musica sia qualcosa che si aggiunge al libretto, all’azione, e che in essa, solo in essa si racchiuda tutto il senso del dramma. Ciò fa sospirare a tanti l’esecuzione di un’opera in forma concertante, così non si vedono tante brutte regie moderne. Invece questa musica pretende la scena, ha senso solo sulla scena, Libretto, scena non sono un di più, ma elemento costitutivo dell’opera. La regia non è illustrazione del melodramma, ma estrinsecazione della sua drammaturgia. E pertanto indispensabile. La sospensione di Cavaradossi prima di attaccare “Recondite armonie”, non è la preparazione dell’aria che verrà, anche perché “Recondite armonie” non è un’aria. È la sospensione del pittore al pensiero della donna amata e dell’ignota che ha ritratto. “Recondite armonie” è l’esplicitazione di quel pensiero. Gli esempi potrebbero continuare. Conati ne fa di mirabili: la sospensione prima del Te Deum nel finale del primo atto di Tosca, e la distanza stilistica tra la musica di Butterfly e quella del contorno, degli altri personaggi, immersi quasi in un clima di commedia. Aggiungo, da parte mia, sollecitato dalla lettura di questi saggi, che il duetto che chiude il primo atto di Butterfly non è un duetto d’amore, come troppi credono. Solo Cio-cio-san lo crede un duetto d’amore. Pinkerton non aspetta che il momento di finire a letto: “Vieni, vieni!”. E sono d’accordo con Conati che “Addio, fiorito asil”, alla fine del secondo atto, andrebbe eliminato: è un’aggiunta per soddisfare il tenore, ma stona con il comportamento del personaggio.
Dino Villatico
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