editore L’Epos
pagine 488
euro 42,80
Una monografia su Bartók scritta e concepita in italiano mancava. C’era solo lo studio-catalogo ragionato di Antonio Castronuovo (1995), il libro fotografico curato da Franco Pulcini (1995) e le lezioni di Massimo Mila, divenute saggio nel 1996. Nulla, dunque, di completo e riepilogativo. Il fatto che a scriverla ci abbia pensato una studiosa dal curriculum impeccabile come Maria Grazia Sità ci fa ben sperare sugli indirizzi della musicologia italiana: concentrata sull’indagine delle fonti musicali presenti e riguardanti la storia della musica nel nostro paese, ma non per questo disinteressata alle figure e alle vicende del contesto europeo. O almeno si spera.
Oltre alla ricerca d’archivio, croce, ossessione e delizia degli studi, abbiamo cioè bisogno di libri che facciano il punto su più generali “acquisizioni” del sapere. Cosa si è scritto negli ultimi anni, cosa si dice su Schumann, Beethoven, Debussy, lo stile classico, il teatro musicale del Novecento? E su Bartók? A scorrere la bibliografia in calce al volume tanto, tantissimo. In inglese, tedesco, ungherese e (poco) in italiano. Ne deriva la necessità di sistemazione e trasmissione, al di là degli specialismi, in un più ampio contesto culturale (ed editoriale). Il volume di Maria Grazia Sità è da questo punto di vista magistrale. Anche perché non dimentica l’altro, difficilissimo, compito: quello della leggibilità. Così la narrazione, il racconto, prende il via dalla “madrepatria” (concetto problematico per un ungherese, o meglio per un magiaro quale Bartók), per poi seguire la nascita, la formazione, i primi successi del compositore a Budapest. Invece dello schema “vita separata dalle opere”, qui il discorso procede unico intrecciando i due piani, con ampie digressioni sui contesti politici (le origini del nazionalismo ungherese), sociali (la borghesia ungherese negli anni della Belle époque), stilistici (caratteristiche e diffusione della musica zigana), perfino del paesaggio rurale ed urbano (gli anni in cui, di fronte agli occhi del giovane Béla, veniva edificata la nuova capitale). Senza con questo sottrarsi al confronto critico: come quando si delineano le derivazioni “romantiche” di un intellettuale affascinato dalla musica del suo popolo, al punto da sentirsi etnomusicologo prima che pianista e compositore d’avanguardia.
Andrea Estero