Ottanta anni fa, in un campo di prigionia nazista, a quindici gradi sotto zero, nacque il “Quatuor pour la fin du Temps” di Olivier Messiaen. Una rappresentazione sonora di un mondo atroce, ripercorsa in un nuovo libro edito da Colophon coi disegni di Mimmo Paladino, un saggio di Sandro Cappelletto e un contributo di Liliana Segre. Tutto avvenne a Görlitz, cittadina nel nord della Slesia che oggi segna il confine tra Germania e Polonia. Proprio lì, una lapide collocata all’ingresso ricorda che dal 1939 al 1945 transitarono 120.000 prigionieri. In una di quelle giornate interminabili, il 15 gennaio 1941 fu eseguito il “Quartetto per la fine del Tempo” di Messiaen, che casualmente s’era ritrovato tre musicisti tra i suoi compagni di prigionia. Erano Jean Le Boulaire (violino), Etienne Pasquier (violoncello) e Henri Akoka (clarinetto). Messiaen stesso era al pianoforte. “Ho scritto un quartetto per i musicisti e gli strumenti che avevo a disposizione – racconterà il compositore dopo la liberazione – Avevo bisogno di pensare alla musica, di farla, per sentirmi vivo. Sono partito da un’immagine molto amata, quella dell’Angelo che annuncia la fine del Tempo. L’abisso è il tempo, con le sue tristezze, con le sue stanchezze. Gli uccelli sono il contrario del tempo sono il nostro desiderio di luce, di stelle, di arcobaleni, di vocalizzi giubilanti”.
L’esecuzione avvenne nella baracca n. 27B adibita a teatro, la stessa in cui venivano dati alcuni spettacoli di prosa e proiettati film di propaganda. “Il ‘Quartetto per la fine del Tempo’ – spiegò Pasquier, che suonava su un violonello senza una corda – ci trasporta in un Paradiso meraviglioso, ci solleva dall’abominevole suolo”. Ottant’anni esatti. Sembra un’eternità. Ma è successo ieri.
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