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Gli onori
al Maestro
Era il 10
novembre 1954
quando Daniel
Barenboim,
allora undicenne,
si esibiva per
la prima volta
a Milano in
occasione della
“Giornata di
Israele” della
Decima Triennale
di Milano, fresco
del premio
straordinario
al Concorso
Internazionale
Viotti di Vercelli.
Sessant’anni
dopo, stessa data,
con il concerto
per violino di
Ciaikovskij
(solista Lisa
Batiashvili) che
inaugura la
stagione della
Filarmonica,
l’ultima in veste
di Direttore
musicale del
Teatro, l’orchestra
gli conferisce il
riconoscimento di
Socio Onorario,
a testimonianza
della
“collaborazione
costruttiva e
della profonda
complicità
musicale e umana
di questi anni
così fecondi e
vitali”. Barenboim
ha raggiunto
il traguardo di
50 presenze
sul podio
collocandosi
sesto nella
classifica dei
direttori più
assidui dopo
Riccardo Muti
(370 concerti)
e Carlo Maria
Giulini (93),
Myung-Whun
Chung (80), Lorin
Maazel (70) e
Riccardo Chailly
(67).
poco l’attività come direttore e incre-
mentare quella pianistica. Ma questo
non significa che il rapporto con la Fi-
larmonica è finito. Tutt’altro. Significa
solo che ci sarò meno di prima. Sono
e sarò sempre un ammiratore della
Filarmonica della Scala e troveremo il
modo di fare ancora delle cose insie-
me”.
In seguito alla vicenda dell’Opera
di Roma, di cui immagino lei sia a
conoscenza, si discute in Italia se
sia meglio avere orchestre stabi-
li, orchestre autonome, orchestre
teatrali che fanno anche attività
sinfonica o orchestre sinfoniche
che fanno anche l’opera. Qual è,
secondo lei, la configurazione
“giuridica” migliore?
“L’importante è che le orchestre ese-
guano sia il repertorio sinfonico sia il
repertorio operistico. Non si possono
suonare le Sinfonie di Mozart senza
conoscere le Nozze di Figaro, così
come non si possono fare le Opere di
Mozart senza conoscere la Jupiter. Se
poi ciò avviene come a Milano, dove
l’orchestra della Scala fa il repertorio
teatrale ma poi si mette la giacchetta
della Filarmonica per fare i concer-
ti sinfonici, o come a Vienna, dove i
Wiener si presentano come orchestra
sinfonica ma prestano servizio anche
alla Staatsoper, questo è secondario.
Dipende dalle tradizioni dei vari paesi.
Se proprio devo scegliere un modello,
penso che la configurazione della mia
orchestra, la Staatskapelle Berlin, sia
ottimale. È una orchestra sinfonica
che esiste autonomamente dal teatro
ma che garantisce la vita teatrale del-
la Staatsoper lungo tutto l’arco della
stagione che, come si può facilmente
constatare, è amplissima”.
Torniamo al concerto che apre
la stagione della Filarmonica, il
10 novembre. Un tutto Ciaikov-
skij con il Concerto per violino e
la Patetica. Perché Ciaikovskij e
quale Ciaikovskij?
“Al perché Ciaikovskij rispondo ricor-
dando la Quinta che abbiamo fatto
alla Scala in primavera. Non sta a me
dirlo ma credo che in quella occasione
abbiamo raggiunto un risultato fuori
dal comune. Se l’ha pensato anche il
pubblico non so…”.
Be’, quella sera gli applausi furo-
no eccezionali…
“In ogni caso, a noi, cioè all’orchestra
e a me, è sembrato che quella espe-
rienza con Ciaikovskij dovesse avere
un seguito. È un desiderio comune e
dunque eccoci qui. Quanto alla Pateti-
ca e al sinfonismo di Ciaikovskij in ge-
nerale ricorderei che anche la musica
russa ha una sua identità ben precisa,
come la tedesca, la francese, l’italiana.
Ma la cultura russa, come si vede anche nella letteratu-
ra, è allo stesso tempo asiatica ed europea, ha qualcosa
di popolare e qualcosa di importato dal cuore dell’Europa.
Ciaikovskij è stato spesso frainteso perché lo si è eseguito
o come un russo o come un europeo. Ma la sua musica è
tutte e due le cose insieme”.
Spesso lo si è frainteso, soprattutto la Patetica, per
un eccesso di sentimentalismo e psicologismo.
“Vero, ma ricordo come fosse ieri - anche se credo che
avessi 15 anni - quando ascoltai per la prima volta Mra-
vinskij che suonò la Quinta in Canada con l’orchestra di
Leningrado. Rimasi sbalordito in primo luogo per come
suonava quella formazione ma ancora di più perché capii
non solo quanto calore c’era in quella musica ma anche
quanta freddezza. Il colore dell’orchestra di Ciaikovskij
può essere caldo come può essere freddo. Il direttore deve
capire quando prevale una cosa e quando l’altra, quando
la musica è popolare e quando è raffinata, quando è asiati-
ca e quando è europea. Insomma, la temperatura emotiva
non è mai una sola in Ciaikovskij. Bisogna sempre distin-
guere momento per momento”.
Aiuta in tal senso la scrittura del musicista? Era
prodigo di indicazioni nelle sue partiture, o c’è an-
che tanto di non scritto?
“Ciaikovskij non era preciso, era precisissimo. Se una par-
titura di Mozart, diciamo così, è in bianco e nero, una di
Ciaikovskij ha mille colori. E il lavoro che abbiamo fatto
con la Filarmonica e che cercheremo ancora di fare è pro-
prio quello di essere fedeli a quanto scrisse l’autore. Que-
sto aiuta parecchio a non travisare la sua musica come
spesso è avvenuto, a non mischiare il freddo e il caldo,
la semplicità e la passione, l’elemento popolare e quello
colto-raffinato”.
Nel Concerto per violino però non è tutto rose e
fiori. C’è un grado di spettacolarità che spesso si
interpreta come qualcosa che sta al confine con la
superficialità.
“No. Il terzo tempo è popolare, spettacolare, profondamente
russo, il primo è vasto, enorme, il secondo è di una bellezza
senza fine. E il virtuosismo di Ciaikovskij non è superficiale,
è al servizio di quella virtù che sta nella radice della parola.
È un virtuosismo molto musicale, tant’è vero che non è la
stessa cosa se lo interpreta un solista o un altro”.
L’ha già eseguito con Lisa Batiashvili, che suonerà
con lei alla Scala?
“Questo pezzo no. Ma abbiamo fatto i Concerti di Bee-
thoven e di Brahms e sono felice di fare anche quello di
Ciaikovskij con lei perché è una violinista piena di musica-
lità, gusto e sensibilità: una vera virtuosa perché anche nei
passaggi più impervi in lei non senti la fatica ma il piacere
di suonare”.
Di Fidelio che dire?
“Ci sarà tempo per parlarne a Milano”.
Ci dica almeno quale Ouverture intende fare…
“Farò la Leonora n. 2”.
Una scelta inconsueta. Di solito si fa la Leonora n. 3
o l’Ouverture Fidelio. Oppure si segue l’esempio di
Mahler che faceva quest’ultima all’inizio e la Leo-
nore n. 3 prima del finale.
“Rispetto l’idea di Mahler. Ma secondo me è bene non
interrompere il ritmo teatrale. E una Ouverture impor-
tante come la Leonora n. 3, quando fosse fatta prima del
finale, priverebbe quest’ultimo di un po’ del suo peso
specifico, che è elevatissimo. Faccio in ogni caso la Le-
onora n. 2 perché racconta tutta la storia, ne anticipa il
clima espressivo. È proprio una ouverture teatrale che
assolve quella funzione per cui esistono le ouverture
prima delle opere”.
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