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cast per titolo o quasi. E cercando di te-
nere alto il livello per tutte le recite della
stessa opera. La stagione della Scala è,
deve essere, un festival permamente.
Come una sorta di Salisburgo che però
dura tutto l’anno”.
Con l’autonomia appena concessa,
la Scala potrà proporre accordi di
lavoro svincolati da quello nazio-
nale. Cosa cambierete?
“Nel contratto nazionale ci sono delle ri-
gidità da eliminare, tra cui quella relativa
al divieto di insegnare: una follia”.
In che senso?
“Punto ad avere un’Accademia d’orche-
stra per gli aspiranti orchestrali di tutto il
mondo. Lamia idea è che i nostri profes-
sori d’orchestra possano insegnare fino
a 150 ore all’anno, non venti, come con
la legge attuale. Così i giovani possono
davvero formarsi sulla tradizione, sul
suono della Scala”.
Altra regola soffocante: la Filarmo-
nica non può suonare in nessuna
città del mondo nello stesso giorno
in cui alla Scala c’è recita.
“Questo vincolo discende da un proble-
ma oggettivo. Il mese scorso sono riu-
scito a sdoppiare l’organico: un gruppo
dell’orchestra faceva Don Chisciotte,
un altro la Creazione con Mehta. Ma è
possibile solo se tutti i musicisti sono
presenti sul posto. Diversamente, per
sovrapporre impegni in città diverse, sa-
rebbe necessario un organico molto più
ampio, come quello dell’Opera diVienna
o di Dresda”.
La Scala ha però anche il compito
di rappresentarci all’estero...
“Stiamo lavorando per dare la possibilità
alla Filarmonica di suonare in tournée
con Chailly, alla fine dell’estate quando
ancora il grosso dell’orchestra è in ferie.
Nello stesso periodo alla Scala si potreb-
be allestire un balletto in versione da ca-
mera. Sono spettacoli bellissimi: penso,
per esempio, alla coreografia di Martin
Schläpfer per il Quintetto ‘la Trota’ di
Schubert”.
Lo sa che i suoi musicisti sono i più
pagati d’Italia?
“Ed è giusto che sia così. Io non gioco
nel campionato in cui milita il Bellini di
Catania, teatro che amo peraltro, ma
in quello dove partecipano il Covent
Garden di Londra, l’Opéra di Parigi, la
Staatsoper di Berlino. L’orchestra della
Scala è di prima categoria, e deve poter
competere e attrarre musicisti di quello
stesso livello”.
Lei è considerato un manager at-
tento ai conti e allergico all’ideolo-
gia del teatro come servizio pubbli-
co, sostenuto principalmente dallo
stato. Cosa pensa del licenziamen-
to degli orchestrali dell’Opera di
Roma?
“Non credo che sarà un vero licenzia-
mento. L’intelligenza di tutti deve rimettere le parti intorno a
un tavolo. L’orchestra si può responsabilizzare con strumenti
diversi”.
Qual è il suo modello di gestione dei rapporti con le
masse artistiche?
“Io voglio costruire una famiglia, che lavora molto forse, ma
dove ciascuna parte sostiene l’altra. Solo così si può lavorare
in pace. Io cercherò di avere i migliori artisti per i miei progetti
e di trovare per ciascuno di essi i finanziamenti”.
E il suo modello di gestione economica?
“Credo nella solidarietà tra ente pubblico, persone private e
imprese. Lo Stato da solo non ha i soldi. Ma non li avrebbe
neanche il Metropolitan di New York: la cui gran quantità di
risorse private sono in effetti tasse, soldi pubblici, che i singoli
o le imprese possono detrarre e decidere di destinare alla cul-
tura. Occore dunque unire le forze. Da questo punto di vista
il modello della Scala è il migliore: un terzo delle risorse viene
dallo Stato, un terzo dal privato e dalle imprese, un terzo dal
box office”.
Le piace, dunque, la legge che nel 1998 ha trasforma-
to gli enti lirici in Fondazioni di diritto privato?
“È stato un processo realizzato in modo troppo veloce. Avrei
cominciato più lentamente ad abituare i dirigenti dei teatri
italiani non solo a spendere,ma anche a cercare finanziamen-
ti. Insegnando loro le tecniche di fundraising. Forse per que-
sto alla Scala hanno scelto me: tra gli italiani non c’era una
grande abbondanza di candidati adatti”.
E il rapporto con gli artisti e il pubblico? Dopo Prêtre,
Alagna, Kurtàg, e la scomparsa di Maazel, sono pre-
viste altre cancallazioni?
“Questo è un problema reale. Fino allo scorso settembre non
potevo firmare e Lissner non sottoscriveva i miei contratti. È
stata una brutta fase di interregno.Adesso, lentamente, emer-
gono delle paure che non mi aspettavo, anche da artisti con
cui ho sempre collaborato. Qualche altra cancellazione ci po-
trà essere, ma lavoro tutti i giorni per convincerli a restare”.
Dopo l’appello ai loggionisti, per ottenere una tregua
sui fischi, vuol fare un appello ai cantanti?
“A loro l’appello lo faccio quotidianamente. Li conosco tutti
di persona. Non posso permettermi di ripiegare su qualcuno
che vale meno: il danno sarebbe ancora più grande”.
Questo problema riguarda anche i direttori?
“Sì. Quando sono chiamati per Verdi e Rossini hanno paura”.
Ma perché ha deciso di puntare sulla generazione da
settanta anni in su?
“Ci sono grandi maestri, che per qualche motivo hanno di-
retto poco o non hanno diretto da molti anni alla Scala. Il mio
chiodo fisso è la qualità delle orchestra e credo che questa
mia proposta sia una delle ultime occasioni per poter far la-
vorare i nostri musicisti con personalità quali Blomstedt, Do-
hnanyi, Haitink, Mehta, Harnoncourt”.
E tra i più giovani?
“Continueremo a invitare Dudamel. Ma mi piace molto an-
che il giovane RobinTicciati. Nella generazione di mezzo, ol-
tre ovviamente al nostro direttore musicale Riccardo Chailly,
Gatti eWelser-Möst”.
Tra i registi più che una questione d’età c’è un proble-
ma culturale.
“La mia Scala vuole accontentare tutti i pubblici, con un mix
di proposte, come ho già fatto a Zurigo”.
Con Lissner il mix prevedeva che gli spettacoli più
innovativi non fossero mai destinati al repertorio ita-
liano, almeno fino al suo ultimo anno di gestione.
“Per Verdi e l’opera italiana penso ad autori di grande equi-
librio. Il modello è il Trovatore andato in scena quest’estate
a Salisburgo di Alvis Hermanis (di cui a gennaio si vedranno
Die Soldaten, ndr). Gli altri nomi sono Stein, Carsen e Michie-
letto: bravo anche se ha commesso qualche errore”.
p
ADDIO
BOHèME
L’obiettivo
della nuova
gestione della
Scala è avere in
repertorio 60 o
65 produzioni
per triennio.
Attualmente
si gestiscono
tredici nuove
produzioni
l’anno, 20
coproduzioni,
20 del repertorio
del teatro.
“Voglio portare
la produttività
del teatro da
13 a 20 nuove
produzioni
annuali di opera
e balletto, anche
per mettere
in sicurezza
il lavoro dei
dipendenti
dell’Ansaldo”,
precisa Pereira.
“Occorre nello
stesso tempo
dismettere
i vecchi
allestimenti
che giacciono
in magazzino,
molti non adatti
allo standard
luminotecnico
attuale: anche la
storica
Bohème
di Zeffirelli,
una meraviglia
all’epoca,
adesso al
pubblico appare
polverosa.
Andrebbe
collocata in un
museo”.